Un aspetto affascinante ma che spesso rimane sullo sfondo delle grandi ricerche è quello di comprendere come nel medioevo la sfera musicale fosse parte integrante della vita quotidiana. Infatti molte sono le testimonianze relative al fatto la musica fosse un elemento indispensabile degli avvenimenti a carattere commemorativo e celebrativo e le cronache concernenti i banchetti realizzati in occasioni di matrimoni delle élite e di visite ufficiali tra principi e reggenti, sono ricche di descrizioni che illustrano ogni particolare della cerimonia: dagli addobbi alle vivande non tralasciando i momenti musicali durante i quali si alternavano musici ed attori. Restano però nell’ombra tutte quelle circostanze che non hanno a che fare con i grandi eventi, ma che tuttavia, in una prospettiva di lunga durata, hanno influenzato la pratica musicale.
Le fonti letterarie del Trecento e del Quattrocento italiano rappresentano una risorsa molto interessante per cercare di capire quale fosse il modo in cui concretamente e quotidianamente era realizzata la pratica musicale. La novellistica italiana offre i maggiori spunti di riflessione perché il genere della novella è quello che meglio ritrae la società del tempo. Questo genere assume tale prerogativa proprio nel Trecento con l’opera che determinerà questo mutamento: il Decameron scritto tra il 1349 ed il 1351 da Giovanni Boccaccio (1313 – 1375).
Vittore Branca, massimo studioso di Boccaccio, afferma infatti che «Per una grande e organica rappresentazione narrativa è stata scelta per la prima volta nel Decameron, quale protagonista, la società contemporanea. Fin dall’Introduzione il Boccaccio […] aggancia solidamente nella realtà e nelle tematiche contemporanee la sua non più epopea ma commedia, ma narrazione di uomini del tempo suo e dei problemi più suoi.» Boccaccio rappresentò con la sua opera un modello da seguire per gli autori che si dedicarono a questo genere. Il Decameron diventò quindi il paradigma di riferimento e i contesti musicali, le citazioni di strumenti che sono largamente presenti in esso, sia nella cornice che nelle novelle, sono rilevate anche in autori ritenuti minori che hanno seguito il modello anche in questo aspetto.
Franco Sacchetti, Giovanni Sercambi, Giovanni Gherardi e Masuccio Salernitano saranno i protagonisti di alcuni articoli che cercano di focalizzare l’attenzione sulla musica come aspetto indispensabile della vita quotidiana.
Franco Sacchetti nacque a Ragusa di Dalmazia fra il 1332 e il 1334, era figlio di un mercante fiorentino ed esercitò anch’egli l’attività di mercante che alternò, dalla metà del XIV secolo, all’attività politica. Fu ambasciatore e membro delle più importanti magistrature fiorentine, priore e podestà in molte città della Toscana e dell’Emilia. La sua vita privata non fu fortunata: a partire dal 1376 perse il fratello, un figlio, la prima e la seconda moglie e nel 1400 morì di peste a San Miniato.
Franco Sacchetti con la sua vita rappresenta pienamente la borghesia fattiva ed intraprendente della Firenze del Trecento, dotata di un solido buon senso e di principi morali semplici e concreti. Lo scrittore fiorentino compose a partire dal 1363, prima del Trecentonovelle, cacce, madrigali e ballate che poi raccolse nel suo Il libro delle rime, di cui una parte fu destinata ad essere musicata ed alcune di queste furono musicate proprio da lui. Le sue rime ci restituiscono una poesia e una musica dai toni freschi e gentili, volta soprattutto a sottolineare i momenti più eleganti della vita di società. Inoltre tra queste composizioni compare un sonetto dedicato all’amico musicista Francesco Landini, il quale, a sua volta, risponderà a Sacchetti con un suo componimento.
Questi lavori però sono completamente assenti nella raccolta di novelle del Sacchetti. La raccolta è stata scritta dal 1392 durante il podestariato di San Miniato, per essere sviluppata in diversi momenti tra il 1393 e la sua morte. L’ opera si apre con un proemio nel quale il Sacchetti, pur definendosi «uomo discolo e grosso», afferma di aver scritto il suo libro per procurare ai suoi lettori sollievo in tempi così tristi. L’aspetto musicale nel Trecentonovelle, a differenza dalla sua precedente esperienza poetica, dove la presenza della musica si avvertiva prepotentemente sia nelle forme poetiche che nelle sue realizzazioni musicali, si configura soprattutto come il panorama sonoro in cui si muovono i protagonisti dei racconti. E’ singolare che Sacchetti, pur essendo autore di poesia per musica, nella raccolta novellistica non introduca riferimenti musicali specifici.
I suoi personaggi popolani, borghesi e signori, agiscono in una realtà ben determinata, nella quale però l’aspetto sonoro e musicale è relegato alla funzione di uno scenario di cui i suoni rappresentano solamente una delle tante componenti. Lo sfondo sonoro più ricorrente è quello costituito dal suono delle campane. I rintocchi dei campanili erano essenziali per scandire la giornata dell’uomo medievale: il suono delle campane non solo segnava il trascorrere del tempo, ma era anche un suono che chiamava a raccolta il popolo per divulgare notizie, chiedere aiuto o per burla. “Certi gioveni di notte legano i piedi di una orsa alle fune delle campane di una chiesa, la qual tirando, le campane suonano, e la gente trae credendo sia fuoco” (Trecentonovelle, Novella 200).
Suoni di campanelle e nacchere rappresentano segnali o mezzi di comunicazione tra i personaggi dei racconti. Riferimenti musicali più specifici sono presenti per caratterizzare meglio le avventure di giullari e burlatori di professione: “disse a uno uomo di corte, chiamato maestro Piero Guercio da Imola, piacevole buffone e sonatore di stormenti, il quale era nel detto cerchio” (Trecentonovelle, Novella 9) ma anche personaggi particolari come nella novella di Volpe degli Altoviti: E ’l Volpe poi sel menò una volta a cena, e non gli dié testicciuole né occhi, ma diégli peducci, sí ch’egli apparasse a sonar le sampogne, o di sonare zuffoli diventasse buon maestro (Trecentonovelle, Novella 107). Altri riferimenti alla musica e al mondo sonoro della Firenze trecentesca li troviamo nelle novelle 114 e 115, in cui rispettivamente un fabbro ed un asinaio cadenzano il loro lavoro accompagnandosi dal canto in questo caso della Divina Commedia, tanto che Dante si risente perché costoro cantano i suoi versi «come si canta uno cantare». I cantari veniva recitati e cantati in ottava rima sulle piazze ed erano di carattere narrativo; la diffusione dei soggetti, che potevano essere leggende cavalleresche, vite di santi ed episodi dell’epica classica avveniva per tradizione orale. Le opere così potevano subire modificazioni ed adeguamenti sia per la modalità di trasmissione che per adattarli ad un pubblico popolare al quale venivano declamate.
Gli unici riferimenti ad una specifica ballata, di cui finora non è stata rinvenuta una versione musicale, sono quelli presenti nella novella 193 in cui è citato il capoverso Se la fortuna e ’l mondo, Mi vuol pur contastare che si riferisce ad una ballata di frate Stoppa de’ Bostichi, discepolo del beato Tommasuccio da Foligno, converso degli Eremitani. Nella novella 229 il Sacchetti invece cita il verso di una ballata di Antonio da Ferrara definito «uomo di corte», «quasi poeta» e «maestro» e fa declamare ad un prete i versi «Egli è molto da pregiare,/Chi ha perduto e lascia andare» che appartengono alla ballata Per fuggir né per dormire.