Lunedì, 07 Marzo 2016 09:09

L'allarme di Greenpeace: "Nell'Adriatico contaminazioni chimiche"

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Le piattaforme per la trivellazione sono impianti inquinanti. A fornire le prove di fenomeni di contaminazione diffusa riconducibili all'attività estrattiva di 34 piattaforme offshore operanti nell’Adriatico, è il dossier redatto da Greenpeace – dal nome piuttosto esplicativo – "Trivelle Fuorilegge".

Nel rapporto vengono pubblicati per la prima volta gli esiti dei piani di monitoraggio ambientale condotti in prossimità di alcune piattaforme presenti nei mari italiani. Si tratta di dati ministeriali contenuti in relazioni tecniche redatte dall'istituto di ricerca pubblico Ispra - Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale - sottoposto alla vigilanza del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (Mattm). Dati pubblici, dunque, non disponibili però sugli organi di comunicazione ufficiali del Ministero.

Inoltre, delle 130 piattaforme operanti in Italia relativamente alle quali Greenpeace avanzò – nel luglio 2015 – richiesta pubblica di accesso agli atti, il ministero consegnò all'organizzazione dati riguardanti soltanto 34 impianti. Tali piattaforme, attive nell'estrazione di gas davanti alle coste di Emilia Romagna, Marche e Abruzzo, sono tutte di proprietà di Eni.

Dall'elaborazione delle (parziali) informazioni ottenute dal Ministero, il quadro che emerge è allarmante. Nel triennio di riferimento 2012-2014 le analisi chimico-fisiche condotte su campioni di acqua, sedimenti, e mitili che crescono nei pressi delle piattaforme, hanno portato alla luce contaminazioni gravi da idrocarburi policiclici aromatici e metalli pesanti. Alcune di queste sostanze sono associate a patologie gravi come il cancro, e sono in grado di risalire la catena alimentare fino a raggiungere gli esseri umani.

Si legge nel rapporto: "A seconda degli anni considerati, il 76% (2012), il 73,5% (2013) e il 79% (2014) delle piattaforme presenta sedimenti con contaminazione oltre i limiti fissati dalle norme comunitarie per almeno una sostanza pericolosa. Questi parametri sono oltre i limiti per almeno due sostanze nel 67% degli impianti nei campioni analizzati nel 2012, nel 71% nel 2013 e nel 67% nel 2014".

"Tra i composti che superano con maggiore frequenza i valori definiti dagli Standard di qualità ambientale (o SQA) fanno parte alcuni metalli pesanti – continua il dossier – principalmente cromo, nichel, piombo (e talvolta anche mercurio, cadmio e arsenico), e alcuni idrocarburi come fluorantene, benzo[b]fluorantene, benzo[k]fluorantene, benzo[a]pirene e la somma degli idrocarburi policiclici aromatici (IPA). Alcune tra queste sostanze sono cancerogene".

Assai più preoccupanti, nella relazione tra catena alimentare e impatto delle attività petrolifere, sono i risultati delle analisi dei tessuti delle cozze prelevate presso le piattaforme. Circa l'86% del totale dei campionati analizzati, infatti, presenta una concentrazione di mercurio superiore ai valori definiti dagli Standard di qualità ambientale.

I controlli sullo stato della qualità ambientale avvengono sulla base di parametri ecologici (SQA, appunto) indicati nel Dm 56/2009 e 260/2010). È questa normativa a definire i limiti che le piattaforme offshore devono rispettare, determinando "la concentrazione di un particolare inquinante o gruppo di inquinanti nelle acque, nei sedimenti e nel biota (organismi) che non deve essere superata, per tutelare la salute umana e l'ambiente".

Accanto alla normativa SQA, esistono i piani di monitoraggio redatti in accordo alle linee guida elaborate da ISPRA (2009) per conto del Ministero, volti a verificare "l'assenza di pericoli per le acque e gli ecosistemi acquatici". In conformità a tali direttive, ogni anno, si eseguono analisi chimicofisiche su campioni di acqua, sedimenti marini e mitili, i cui risultati, raccolti in relazioni tecniche, vengono trasmessi e acquisiti dal Ministero che, in assenza di divergenze con le linee guida ministeriali, concede l'autorizzazione allo scarico in mare delle acque di produzione.

Le piattaforme obbligate a redigere i piani di monitoraggio sono quelle che scaricano direttamente in mare, o iniettano/re-iniettano in profondità, le acque di produzione, quelle cioè che, durante le fasi di coltivazione degli idrocarburi, sono estratte insieme al gas – o al greggio – risultando cariche di sostanze inquinanti. Tra le piattaforme monitorate, ci sono le 34 di proprietà Eni relativamente alle quali il Ministero ha fornito dati. E gli esiti delle analisi, come rilevato da Greenpeace, mostrano evidenti criticità ambientali con la presenza, oltre i limiti consentiti, di composti altamente tossici nei campioni di sedimenti e di organismi raccolti.

Laddove esistono limiti fissati dalla legge le trivelle, spesso, non li rispettano. E la situazione, almeno nel periodo di riferimento 2012-2014, non è sostanzialmente cambiata nel corso degli anni. Nonostante questo, non risultano licenze ritirate, concessioni revocate o altre iniziative del Ministero atte ad arginare i danni provocati. "A cosa servono questi monitoraggi se non impongono adeguamenti e se non prevedono sanzioni?", viene evidenziato nel dossier.

Alle contaminazioni comprovate frutto dell'attività estrattiva dei 34 impianti Eni, si aggiunge il nodo delle oltre cento piattaforme mancanti all'appello, su cui, non avendo il Ministero diffuso alcun dato, non si sa praticamente nulla.

Non è tutto. Dalle informazioni in possesso di Greenpeace, emergerebbe il "doppio gioco" dell'Ispra, figurante, al tempo stesso, quale organo super partes chiamato a vigilare sulla conformità dei dati ambientali alle linee guida ministeriali, e quale committente della redazione dei piani di monitoraggio, per conto di Eni, proprietaria delle piattaforme oggetto di indagine.

C'è da precisare che, da statuto, l'Ispra è legittimato a vendere i propri servizi di consulenza anche a società private. Il problema è che, in questo caso, le autorizzazioni necessarie ad Eni per sversare direttamente in mare le acque di produzione sono direttamente subordinate ai pareri dello stesso Ispra. Amare le conclusione di Greenpeace: "Il controllore è a libro paga del controllato. Quel che a nessun cittadino sarebbe concesso viene invece concesso invece ai petrolieri, il cui operato è fuori controllo, nascosto all’opinione pubblica e gestito in maniera opaca".

In prossimità del referendum del 17 aprile, il dibattito sull'impatto ambientale dell'attività di estrazione è più che mai vivo. Si discute molto dei rischi connessi all'installazione di nuove piattaforme, meno degli effetti prodotti da quelle già presenti e operanti nei nostri mari. Eppure dal rapporto di Greenpeace emergono contaminazioni gravi e già diffuse in parte del Mar Adriatico.

Un quadro ambientale critico che da un lato afferma la necessità di urgenti misure risolutive, e dall'altro getta pesanti interrogativi sulla adeguatezza dei controlli sulle trivelle in Italia. Di qui l'invito di Greenpeace a partecipare al referendum e a votare "sì" per fermare chi "svende la bellezza del nostro Paese".

Ultima modifica il Lunedì, 07 Marzo 2016 12:34

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