"La drammatica situazione occupazionale verificatasi per l’emergenza sanitaria rischia di aggravare la condizione di estrema fragilità del nostro territorio provinciale. I dati dell’Istat relativi all’anno 2019, pur consegnandoci un quadro in lieve ripresa rispetto all’anno precedente, ci fanno temere seriamente per la tenuta economica ed occupazionale della nostra provincia. Tale condizione di particolare vulnerabilità riguarda maggiormente alcune categorie di lavoratori, e nello specifico i giovani e le donne".
Ad affermarlo sono Francesco Marrelli e Miriam del Biondo, rispettivamente segretario provinciale generale della Cgil L'Aquila e segretario provinciale della Flc Cgil L'Aquila.
"Al 2019 risultano in cerca di occupazione circa 12.000 persone, di cui il 60% uomini ed il 40% donne; il tasso di disoccupazione maschile è pari al 9,3%, quello femminile al 9,7%, con un tasso di occupazione nella corrispondente classe di età del 48,8% per le donne e del 67,6% per gli uomini. Il tasso totale di attività per le donne è pari al 54,4%, mentre è del 74,5% quello per gli uomini".
"La situazione diviene di particolare rilevanza quando andiamo ad analizzare il dato sulla disoccupazione giovanile che si attesta per gli uomini al 16,9% e per le donne al 28,6%".
"In questo momento è fortemente a rischio la possibilità di rilancio occupazionale per giovani e donne. Queste ultime sono ancora più danneggiate dagli eventi recenti legati al coronavirus poiché carenza di servizi, contrazione dei livelli occupazionali, tipologie di lavoro e bassi salari incidono negativamente non solo sul rilancio, ma addirittura sul mantenimento della loro condizione occupazionale".
"L'occupazione femminile trova maggiormente limiti e definizioni nell'assenza endemica di politiche volte a favorire il lavoro delle donne che, come sappiamo non ha mai assunto, neanche nell'immaginario popolare, la dignità di quello dell'uomo. L'aspetto culturale di tale mancanza è chiaramente collegato alla difficoltà di coniugare le esigenze imposte da orari e luoghi di lavoro con quelle imposte dalla cura familiare a cui la donna, a differenza dell'uomo, non si può sottrarre. E questa difficile coniugazione non è assolutamente favorita dalla mancanza della rete di servizi sul nostro territorio".
"Basti pensare che dall’ultimo dato dell’Istat relativo all’anno 2017 solamente il 32,4% dei comuni ha attivato servizi per l’infanzia sul totale dei comuni nella provincia aquilana e che solamente il 6,7% dei bambini tra zero a tre anni hanno usufruito di servizi per l’infanzia nella corrispondente fascia di età".
"Anche qui l’emergenza per il Covid 19 ha fatto emergere criticità già esistenti e spesso sedimentate, sulle quali non si è mai intervenuti in maniera strutturale. Il lavoro femminile spesso è rimasto legato a professioni che hanno in sé il valore della cura. Dalla scuola alle professioni sanitarie ed assistenziali".
"Le donne hanno potuto scegliere, quando hanno potuto, solo lavori che non le tenessero a lungo fuori casa, se non lavoretti che spesso servono a portare in famiglia un contributo economico, ma non a far crescere l'identità della lavoratrice. Oggi la drammaticità di problemi culturali e di conseguenza economici e sociali mai affrontati emerge perché appare chiaro come la mancanza di servizi per l’infanzia rischia di impedire il lavoro della donna, il cui posto all’interno della famiglia, luogo per eccellenza della stereotipia dei ruoli, non è mai stato messo in discussione".
"Nella nostra provincia, soprattutto nelle aree più interne con una forte tendenza allo spopolamento, nei primi 11 mesi del 2019 tra i 2359 residenti persi, il saldo migratorio femminile ammontava al meno 355 contro quello maschile di meno 489. Per quanto inferiore, quel 355 non è un numero rassicurante, anzi dimostra ancora una volta che alle donne è difficile anche la mobilità sul territorio per cercare lavoro. Perché le donne continuano ad avere ancora l'onere della gestione familiare".
"E' chiaro, quindi, perché le donne, anche quelle che negli anni avevano ricavato lo spazio per un lavoro all’esterno, spesso come attività secondaria rispetto a quello svolto in famiglia, siano tornate ad essere inchiodate in casa per tutto il tempo dell'isolamento, mentre, alla graduale ripresa delle attività, si siano trovate nella difficile scelta di dover rinunciare al lavoro anche per mancanza di servizi dedicati all’infanzia e per il protrarsi della chiusura delle scuole".
"A tal proposito, ricordiamo che il segmento integrato 0-6 disciplinato dal Decreto Legge 65 del 2017, oltre al rischio che la scuola dell’Infanzia fosse inclusa nei servizi perdendo la sua dignità di sistema di istruzione, ragione per cui come Organizzazione Sindacale avevamo espresso forti dubbi, prevedeva da parte degli Enti Locali una concertazione con gli Uffici Scolastici ed anche la stipula di convenzioni per la gestione e la creazione di nidi e micro-nidi, sezioni primavera e servizi integrativi (i famosi centri gioco o i centri di educazione familiare di cui oggi si fa un gran parlare)".
"A distanza di tre anni non ci risulta che siano state avviate azioni in questa direzione nella nostra provincia o altre misure, a nostro avviso doverose, che possano portare a soluzioni che favoriscano una piena occupazione femminile senza mettere le donne nella condizione di dover rinunciare alla maternità o di dover sacrificare l'occupazione".
"In questo ultimo periodo di isolamento, insieme ai figlie e le figlie le madri sono state risucchiate in casa perché la riproduzione, così come la cura, sono ancora responsabilità prevalentemente femminili".
"In questo periodo corriamo il rischio che il diritto all’istruzione e alla socialità dei figli e delle figlie diventino alternativi al riconoscimento dei diritti delle lavoratrici. Così come la scuola, al cui rientro è legato il ritorno al lavoro delle madri e non dei padri rischi di essere identificata con una sorta di generale ludoteca dove posteggiare i figli per permettere alle madri di andare a lavorare".
"No, non ci siamo. Se questo è il momento di ripensare il lavoro, è chiaro che va rivendicata, anche sul nostro territorio una seria politica di welfare che permetta attraverso la creazione di reti di servizi la piena realizzazione della lavoratrice e vada nella direzione di un cambio culturale dell’idea di cura familiare e filiale che liberi la donna madre e lavoratrice da un giogo millenario".