E' passato tanto tempo da quando il fotografo era il solo ad impugnare una macchina fotografica e a possedere l'arte e l'ingegno per utilizzarla al meglio. Ormai la fotografia è alla portata di tutti, così come, grazie ai voli low-cost, lo sono i viaggi. Ma in che modo queste due passioni possono intrecciarsi sino a spiegare, attraverso le immagini, mondi così distanti dai nostri? Ne parliamo con Fabrizio Politi, giovane fotografo aquilano che, quando può, lascia il capoluogo abruzzese per fotografare atmosfere, città e volti, purché siano 'diversi' e 'altri' da quelli che siamo abituati a vedere ‘da queste parti’.
Quando hai cominciato a conciliare la passione della fotografia con quella dei viaggi?
I primi viaggi a dire la verità li ho fatti senza macchinetta, uno dei primi è stato a vent’anni in Spagna con un pulmino della Volkswagen aggiustato da me e dai miei amici; si fermò al casello di L’Aquila ovest ma poi proseguì dritto fino a Barcellona, a 70 chilometri orari. Ho avuto la possibilità di viaggiare molto perché ho iniziato presto a lavorare. Poi mi sono accorto che era bello immortalare posti diversi da quelli che il mio occhio era abituato a vedere tutti i giorni e quindi ho deciso di comprare una macchina fotografica e da lì viaggio e fotografia hanno iniziato a vivere in simbiosi. I soldi che guadagnavo fotografando matrimoni li utilizzavo per i miei viaggi e per l’attrezzatura fotografica. Crescendo, il mio modo di approcciarmi alle foto, ma anche ai viaggi, è cambiato. Adesso li programmo in base al risultato fotografico che posso ottenere: sono andato in Birmania, ad esempio, perché sapevo che le persone si lasciavano fotografare e potevano venir fuori foto diverse.
Qual è stato il tuo primo vero “viaggio fotografico”, ovvero il primo viaggio in cui hai portato con te la giusta attrezzatura? E che ricordo ne hai?
Il viaggio in Argentina e in Patagonia nel 2007 ha rappresentato per me l’inizio di questa serie di esperienze. Di quelle zone, a livello fotografico, ricordo che mi colpirono gli scorci e la natura, come il ghiacciaio Perito Moreno, la montagna del Cerro Torre. C’erano poi dei fari davvero caratteristici in quella zona, costruiti dalla stessa società che si era occupata della Tour Eiffel a Parigi, la Barbier Bernard & Constructeurs. Fu molto interessante come primo esperimento fotografico.
Cos’è che ti spinge ad andare lontano dall’Italia e da tutto ciò che è occidentale?
La voglia di immortalare cose completamente diverse da quelle che siamo abituati a vedere e persone che, con i loro sguardi e le loro espressioni, ti trasmettono delle emozioni differenti. Fotografare la gente e i popoli oltre oceano è una cosa che mi affascina e che mi regala sensazioni che vorrei a mia volta trasmettere agli altri attraverso le foto, facendo capire cosa ho provato stando in quei luoghi. Poi ovviamente ognuno vede con il suo occhio e il suo pensiero per cui interpreta la foto attraverso il suo punto di vista ma è anche questo il bello.
Quali sono dei posti dove ancora non sei stato ma che vorresti assolutamente fotografare?
In primis l’India, con i suoi bellissimi volti ma la vedrò presto: partirò a gennaio. E sogno anche il Tibet, dove vorrei giungere al primo campo base dell’Himalaya. Poi vorrei partecipare al Mongol Rally: una gara di beneficenza che parte da Goodwood nel Regno Unito e ha come traguardo Ulan Bator in Mongolia. Si fa con macchine vecchie, che una volta arrivati si lasciano lì e si attraversa l'Europa evitando le autostrade. Certo che anche la Transiberiana, con i suoi 9000 chilometri di culture ed etnie diverse, sarebbe un viaggio stupendo.
Quale sono stati invece i posti che hai fotografato in questi anni?
Dell’America ho visto la Patagonia, il Perù, la Bolivia, gli Stati Uniti (dove ho fatto il “coast to coast”, da New York a Los Angeles in macchina attraverso la route 66) poi il Messico, lo Yucatan, Cuba e Santo Domingo. Ho visto poi la Turchia, nella regione della Cappadocia; l’Europa l’ho girata tutta e con la moto sono arrivato fino a Capo Nord. Sono stato in Vietnam, in Africa e in Australia.
A livello fotografico, quali tra questi posti ti ha regalato più emozioni?
Per la popolazione sicuramente la Birmania perché lì le persone hanno un’espressione particolare e quando guardano nell’obiettivo ti trasmettono qualcosa di più rispetto agli altri popoli. A differenza degli occidentali che sono schivi, il birmano si ferma, vuole essere fotografato e vuole guardare la foto sul display della macchina fotografica. Questo avviene probabilmente perché per il momento non è un luogo molto turistico e ogni cosa è una novità per loro. E poi non credono, come in Cambogia o in Vietnam, che tu possa rubargli l’anima fotografandoli.
Qual è stata la foto più difficile da scattare?
A Machu Picchu ebbi problemi con una guida turistica del luogo che non voleva che fotografassi da vicino i monumenti con gli obiettivi. Ma, a livello emozionale, il momento in cui è stato più difficile scattare è stato in Birmania dove c’era una donna senza gambe che si trascinava sulle mani per entrare in una barca, senza che nessuno l’aiutasse. E’ stata difficile perché è stata una scena toccante per me ma, in fondo, se fai reportage, fotografi la realtà e, in alcuni posti, la realtà è anche questa.
Com’è cambiato il tuo modo di “guardare” altri popoli?
Attualmente sto cambiando modo di fotografare, mi sto concentrando molto sulla gente e in particolare sugli sguardi. Ora vorrei studiarli meglio, magari più da vicino, mettendoli a fuoco e sfocando tutto il resto. L’occhio ti trasmette qualcosa che in nessuna lingua si potrebbe esprimere e a volte mi è capitato di scorgere in popolazioni diverse gli stessi sguardi, come in Birmania e in Perù dove vi si leggeva tanta tristezza.
Che cosa ti spinge ad intraprendere un nuovo viaggio?
Fare una foto più bella di quella che ho fatto e fotografare una persona più particolare dell’ultima persona che mi ha affascinato.