Tra le estati 2018 e 2019 è indubbiamente trascorso un annus horribilis per l'immigrazione, con ben due decreti 'sicurezza', immediatamente convertiti in legge, che hanno colpito sia gli immigrati già presenti in Italia, il primo, sia quelli direttti verso il nostro paese, il secondo. Tutta l'attenzione mediatica e la comunicazione politica hanno continuato ad insistere sugli arrivi via mare dei richiedenti asilo, riproponendo - come da 40 anni a questa parte - la retorica dell'invasione.
In realtà, a seguito dei discutibili e onerosi accordi che l'Italia ha stretto con la Libia, non solo già nel 2017 il numero dei migranti sbarcati nel paese era diminuito di oltre un terzo rispetto al 2016, scendendo a 119.310 casi, ma durante tutto il 2018 si è attestato ad appena 23.370, un numero crollato in un anno di oltre l'80%, per ridursi, nei primi 9 mesi del 2019, a soli 7.521 casi.
Si tratta di una cifra inferiore di ben 5 volte ai 39mila migranti che, nel frattempo, sono giunti in Grecia e di circa 2,5 volte ai 19mila approdati in Spagna, oltre che sostanzialmente equiparabile ai 6.400 richiedenti asilo che, nel 2018, l'Italia ha dovuto riammettere sul proprio territorio dai paesi comunitari in cui si erano trasferiti violando il regolamento di Dublino.
Si evince sfogliando il Dossier Statistico Immigrazione 2019, realizzato dal Centro Studi e Ricerche IDOS, in partenariato con il Centro Studi e Rivista Confronti, presentato al Festival della Partecipazione con un evento organizzato dall'Università degli Studi dell'Aquila.
Il rapporto mette in evidenza come il crollo degli arrivi via mare sia stato ottenuto al prezzo di un elevato numero di migranti fermati lungo la traversata dalla Guardia libica costiera (appositamente finanziata, addestrata e rifornita di mezzi dall'Italia e dall'UE) oppure annegati lungo la rotta del Mediterraneo centrale, ancora la più letale al mondo con più di 25mila morti o dispersi accertati dal Duemila ad oggi: oltre la metà di tutti quelli calcolati nelle rotte marittime a livello mondiale. Solo nel 2018, l'Organizzazione internazionale delle Migrazioni ne ha contati più di 1.300 lungo la tratta di mare italo libico, per un rapporto di 1 ogni 35 rispetto a quelli che hanno tentato la traversata. L'anno precedente, in cui pure i morti e i dispersi accertati erano stati più numerosi, oltre 2.800, il rapporto con chi partiva era stato più basso, pari a 1 ogni 50, anche grazie ai salvataggi effettuati dalle navi umanitarie delle Ong.
A queste ultime, prima che una insistente campagna di criminalizzazione - spesso basata su accuse giuridicamente inconsistenti - ne riducesse di fatto il numero e la capacità di intervento, erano ascrivibili il 35% di tutti i salvataggi effettuati. Una percentuale scesa a meno del 10% nel 2019, per effetto della pratica dei 'porti chiusi', poi normata nel secondo decreto 'sicurezza', in base al quale oggi sono a rischio di confisca e di multa fino a 1 milione di euro tutte le imbarcazioni che, pur avendo a bordo persone soccorse in mare, non rispettino il divieto nazionale di sbarco.
In tale contesto, è sorprendente constatare che i 20 casi mediatici delle navi umanitarie cui il governo precedente ha vietato l'attracco, tenendole bloccate in mare per una media di circa 10 giorni ciascuna, hanno riguardato, nel complesso, una quota di migranti minoritaria a fronte delle migliaia che nel frattempo, a dispetto della propaganda dei 'porti chiusi', sono state lasciate approdare con i cosidetti 'barchini fantasma'. Tanto più che, in 453 giorni complessivi di vita del precedente esecutivo, sono stati ben 154 quelli in cui sono state tenute ferme in mare tali navi con i migranti a bordo, ossia un terzo dell'intera durata del governo stesso. Con questa tattica recriminatoria verso l'Unione Europea, l'Italia ha evitato di accogliere un numero limitato di persone, circa 2mila, le quali sono sbarcate o a Malta, per ben 10 volte, o in Spagna, in 2 occasioni.
Tra tutte le persone sbarcate in Italia nell'anno, sono diminuiti sensibilmente anche i minori stranieri non accompagnati, che nel 2018 sono stati poco più di 3.500, sebbene la loro incidenza su questi arrivi sia rimasta comunque significativa, essendo pari a più di un settimo del totale (15.1%).
I minori stranieri non accompagnati in Italia sono in stragrande maggioranza 17enni o 16enni, maschi, e molti di loro, iper-responsabilizzati dalla funzione di cui vengono investiti in partenza dalle proprie famiglie, abbandonano i centri di accoglienza loro riservati, rendendosi irrintracciabili, con tutti i gravi pericoli di sfruttamento a cui questa condizione sommersa li espone. Secondo il Ministero del Lavoro sono oltre 5.200 quelli che a fine 2018 erano irreperibili in Italia, a fronte di quasi 10.800 ospitati nei centri di accoglienza.
Il restringimento delle possibilità di entrata legale per i migranti economici, la cui pressione migratoria non è tuttavia diminuita, ha avuto due effetti consecutivi. Il primo è che li ha spinti a tentaregli stessi percorsi dei migranti forzati, mescolandosi a loro e rendendo misti i relativi flussi; il secondo effetto è che essi sono stati poi esclusi dalla possibilità di rimanere regolarmente in Italia dai verdetti di rigetto delle loro richieste di asilo: su 95.200 domande esaminate nel 2018 - quando quelle presenze ex novo sono state circa 60mila - solo un terzo, il 32.2% è sfociato in qualche forma di protezione.
IL CASO DELL'ITALIA NEL CONTESTO INTERNAZIONALE
Se alla drastica riduzione degli arrivi via mare si aggiunge la sostanziale chiusura, da diversi anni, dei canali regolari di ingresso per i non comunitari che intendano venire a lavorare stabilmente in Italia, ben si capisce perché, in realtà, è da almeno 6 anni che la popolazione straniera non è in espansione.
Anche nel 2018 essa è cresciuta di appena il 2.2%, arrivando a 5.255.000 residenti, pari all'8.7% di tutta la popolazione.
Una tendenza che stride con l'andamento mondiale delle migrazioni, se si pensa che nello stesso anno i migranti nel mondo sono aumentati di oltre 14 milioni, arrivando ad un totale di 272 milioni a giugno 2019, pari a più di 1 ogni 30 abitanti della terra. Di costoro, circa 24 milioni sono rappresentati da rifugiati e richiedenti asilo, ai quali si aggiungono 41 milioni e 400mila sfollati interni e circa 5 milioni di rifugiati 'storici' palestinesi che ricadono sotto la gestione dell'Unrwa, per un totale di quasi 71 milioni di migranti forzati a livello planetario.
Ad alimentare le migrazioni mondiali contribuiscono certamente le perduranti sperequazioni economiche tra le varie aree del pianeta, con un sempre più accentuato differenziale tra arricchiti e impoveriti. A fronte di un pil mondiale che nel 2018 ammonta a 121.000 miliardi di dollari Usa, pari a una media pro capite di 15.900 dollari annui, i paesi economicamente più ricchi del Nord del mondo, dove abita solo il 17% della popolazione mondiale, contano su un pil pro capite di 39.300 dollari Usa, quasi 4 volte superiore ai 10.500 dollari dei paesi poveri del Sud, all'interno dei quali 821 milioni di persone soffrono ancora la fame. Ma le migrazioni sono causate anche dalle tante guerre e conflitti in atto nel mondo, dalle epidemie, dai disastri ambientali provocati anche dai cambiamenti climatici globali.
Nel più ristretto contesto dell'Ue, che a inizio 2018 conta al sua interno una popolazione straniera di 39.9 milioni di persone, il 7.8% dei 512 milioni di abitanti complessivi, l'Italia si colloca al terzo posto per numero di stranieri residenti, dopo la Germania (9.7 milioni) e il Regno Unito (6.3 milioni), precedendo la Francia e la Spagna (rispettivamente con 4.7 e 4.6 milioni). Anche per quel che riguarda l'incidenza dei residenti stranieri sulla popolazione complessiva, diversi altri paesi comunitari, anche più piccoli, ne conoscono una molto più alta di quella italiana (dall'11.7% della Germania, al 9.8% della Spagna, al 12% del Belgio, al 15.7% dell'Austria fino a ben il 47.8% del Lussemburgo).
Inoltre, tra gli stranieri residenti in Italia, all'aumento netto di 111.000 presenze rispetto all'anno precedente hanno contribuito anche i 65.400 bambini nati nel 2018 da coppie straniere già presenti nel paese, i quali non sono quindi 'immigrati'.
Anche il loro numero, comunque, continua a calare insieme a quello delle nuove nascite nel loro complesso: 439.700 nel 2018, il livello più basso registrato da decenni, delle quali poco più di un settimo riferite a genitori stranieri (14.9%). E' un dato preoccupante, che conferma l'inesorabile declino demografico dell'Italia, prossima ad avere un terzo della popolazione complessiva con più di 65 anni e giovani minorenni solo ogni 8 abitanti.
La metà degli stranieri residenti in Italia è di cittadinanza europea (50.2%), poco più di un quinto è di origine africana (21.7%), gli asiatici coprono un altro quinto delle presenze (20.8%), mentre è americano (soprattutto latino americano) 1 residente straniero ogni 14. I più numerosi (più dell'intera provenienza dall'Africa) sono i romeni, che con 1.207.000 residenti continuano a rappresentare la prima collettività estera in Italia, precedendo di gran lunga i 441.000 albanesi, i 423.000 marocchini e, a maggiore distanza, i 300mila cinesi e i 239mila ucraini.
Dal 2016, è praticamente statico anche il numero dei soli soggiornanti non comunitari, pari a 3.717.000 persone: dei 242mila nuovi permessi di soggiorno rilasciati nel 2018, più della metà dei quali per motivi familiari, quasi 40mila hanno riguardato presenze temporanee, come studio e lavoro stagionale, e diversi si riferiscono a persone o nate in Italia nell'anno o che, già presenti nel paese, hanno effettuato una conversione del motivo del proprio permesso di soggiorno, e non a nuovi ingressi effettivi.
Questi ultimi sono stati compensati sia dagli stranieri che nel 2018 hanno lasciato l'Italia (sicuramente più numerosi delle loro 40mila cancellazioni per l'estero registrate dalle anagrafi), sia dai 112.500 che nello stesso periodo hanno acquisito la cittadinanza italiana.
Un numero, quest'ultimo, in netto calo rispetto ai due anni precedenti, sul quale pesa non solo una legge anacronistica imperniata sullo ius sanguinis - che in 27 anni nessuno governo è riuscito ancora a riformare, nonostante le innumerevoli proposte di legge depositate in Parlamento e le diverse campagne e raccolte di firme a favore di un suo superamento - ma addirittura un inasprimento dei requisiti, anche economici, necessari non solo per ottenerla ma soprattutto per conservarla, a causa delle aumentate possibilità di revoca introdotte dal primo decreto sicurezza del 2018.
La mancata risoluzione della questione della cittadinanza per chi nasce in Italia, in un paese in cui iniziano ad affacciarsi addirittura le terze generazioni di immigrati, costituisce uno di quei fattori che stanno contribuendo ad avviare processi di disaffezione e - soprattutto tra i più giovani e qualificati - anche di abbandono dell'Italia.
Un fenomeno che, del resto, sta assumendo proporzioni preoccupanti anche tra gli italiani, sia nativi che per acquisizione, i quali hanno ripreso a emigrare massicciamente, spopolando soprattutto le regioni del Sud.
EFFETTI DI ESCLUSIONE DEL DECRETO SICUREZZA 2018
E' verosimile che a causa del primo decreto 'sicurezza' siano sensibilmente aumentati gli stranieri irregolari: questo decreto, infatti, da un lato ha abolito i permessi per protezione umanitaria, rendendone impossibile rinnovi e nuovi rilasci, dall'altro, istituendo permessi speciali più labili e difficilmente rinnovabili, ha ridotto e reso più precaria la platea dei beneficiari. Anche a seguito di tali revisioni, dei 530mila stranieri irregolari stimati a inizio 2018, si è calcolato che entro il 2020 possano arrivare a oltre 670mila: un numero secondo solo a quello emerso nella grande regolarizzazione del 2002.
Effetti particolarmente critici ha prodotto anche la rimodulazione del sistema di accoglienza prevista dal decreto, che ha separato fisicamente i titolari di protezione dai richiedenti asilo, riservando esclusivamente ai primi la fruizione di percorsi di inserimento sociale e lavorativo all'interno dei centri Siproimi (ex Sprar) e relegando invece i richiedenti asilo nei Centri governativi di prima accoglienza (Cara e CdA), affiancati in caso di indisponibilità di posti dai Centri di accoglienza straordinari (che continuano così a svolgere un ruolo strutturale nel sistema). Qui sono destinati ad aspettare l'esito della loro domanda per un tempo che può durare da 1 anno a 2 (e in diversi casi anche oltre), senza poter seguire nel frattempo alcun corso di orientamento e di inclusione, con un conseguente decurtamento del massimale giornaliero pro capite nei bandi prefettizi per l'affidamento dell'accoglienza ad enti gestori privati (da 35 euro a 26 o 21 euro, in base al numero di richiedenti asilo ospitati, secondo una modulazione che favorisce i grandi centri).
Tale riforma - complici le direttive dei vari prefetti che, all'indomani dell'entrata in vigore del decreto, hanno indebitamente fatto espellere dai centri Sprar sia i titolari di protezione umanitaria sia i richiedenti asilo, mettendo letteralmente sulla strada intere famiglie di migranti - ha contribuito, insieme al forte calo degli sbarchi, a svuotare il sistema di accoglienza con migliaia di persone, facendole disperdere sul territorio. Nel 2018, il numero di migranti ospitati nei centri di accoglienza è calato, rispetto ai 186.800 del 2017, di circa 51mila unità, arrivando a 135.800 e diminuendo ancora di quasi 27mila unità nei primi 6 mesi del 2019, quando è sceso a circa 108.900, di cui 82.600 nei Cas e 26.200 - meno di un quarto - nei centri Siproimi.
Il taglio dei fondi, inoltre, ha reso disoccupati migliaia di professionisti, tra operatori, psicologi, educatori, formatori, consulenti che lavoravano nei Cas per offrire assistenza, tenere corsi in italiano e gestire servizi di inserimento per i migranti, ma ha anche indotto la diserzioen dei bandi di affidamento prefettizi da parte di una serie di enti che non hanno ritenuto congruo il ridotto massimale economico rispetto al livello minimamente dignitoso di accoglienza da garantire.
Infine, nel confinare migliaia di richiedenti asilo in strutture prive di queste figure e senza possibilità di fruire di tali percorsi, destinandole a rimanerci per mesi e anni, le ha ancor più esposte, in questo ozio forzato, al reclutamento della criminalità organizzata.
UN RADICAMENTO DISCONOSCIUTO
A segnali di sempre più grande stabilizzazione e radicamento da parte della popolazione straniera in Italia, continuano a fare da contrappunto dimaniche e politiche di esclusione e discriminazione che disconoscono il carattere strutturale dell'immigrazione nella società italiana.
Da una parte è certamente significativo, ad esempio, che ben il 60.1% dei non comunitari regolarmente soggiornanti, ovvero 2.233.000 di essi, abbia un permesso di durata illimitata, e quindi uno status legale stabile, e che dei restanti titolari di permessi a termine, ben 3 su 4 ne abbiano uno o per motivi di famiglia (46.9%) o per lavoro (29.7%), ossia per ragioni che sottintendono comunque un radicamento nel paese.
Come è pure notevole, da una parte, che il numero totale di stranieri che finora hanno acquisito la cittadinanza italiana ammonti a quasi un milione e mezzo; e, d'altra parte, che i residenti stranieri che sono nati in Italia siano già più di un quinto del totale, ovvero circa 1.100.000 persone, le quali sono quindi 'straniere' solo da un punto di vista giuridico.
Ben la metà di queste ultime, pari a 531mila individui, è costituita da giovani che siedono sui banchi delle scuole italiane e che costituiscono ormai quasi i 2/3 degli 842mila alunni stranieri complessivi, i quali a loro volta rappresentano un decimo di tutta la popolazione scolastica italiana.
Nonostate questa evidente organicità nel tessuto sociale, però, in Italia la popolazione straniera viene ancora penalizzata o discriminata sotto diversi punti di vista, in particolare nell'accesso a beni e servizi fondamentali di welfare.
Nel 2019 è stata emblematica, anche per le modalità in cui è stata attuata, l'eslusione degli stranieri dal 'reddito di cittadinanza' appena istituito: infatti, il periodo di residenza richiesto (10 anni, di cui 2 continuativi) è quintuplicato rispetto a quello previsto dal precedente 'reddito di inclusione' e l'unica categoria di stranieri ammessa è quella dei detentori di un permesso di soggiorno di lunga durata, il cui rilascio già richiede, come requisito, un reddito minimo annuo - circa 6mila euro - analogo a quello al di sopra del quale si viene esclusi dall'accesso al Rdc.
Ma la circostanza più discutibile è la disposizione che obbliga gli stranieri richiedenti a fornire, insieme al modello Isee, una serie di documenti comprovanti il reddito nei paesi d'origine, difficili da ottenere da tali paesi, soprattutto a distanza.
UN INSERIMENTO SUBORDINATO NEL MERCATO DEL LAVORO
Se a quanto appena rilevato si aggiungono le annose difficoltà di riconoscimento dei titoli e delle competenze professionali acquisiti all'estero da parte di stranieri venuti in Italia, ben si comprende come essi, nell'inserirsi in un mercato del lavoro estremamente rigido e segmentato come quello italiano, continuino a essere incanalati e schiacchiati - con scarsa mobilità occupazionale e quindi sociale - sui lavori opportunamente definiti delle '5 p': pesanti, pericolosi, precari, poco pagati e poco riconosciuti socialmente.
Dei 2.455.000 occupati stranieri calcolati dall'Istat a fine 2018 (il 10.6% di tutti i lavoratori occupati nel paese), ben 2 su 3 (65.9%) lavora nel settore dei servizi (dove spiccano i comparti di assistenza domestica e familiare, alberghiero-ristorativo, dei servizi di pulizie) oltre un quarto nell'industria - che comprende anche l'edilizia - e il 6.4% nell'agricoltura.
A conferma di un inserimento di livello generalmente basso e fortemente differenziato per appartenenza nazionale e generale, basti notare che ben 2 lavoratori stranieri su 3 svolgono professioni non qualificate o operaie, mentre solo 7 ogni 100 svolgono professioni qualificate. In assoluto, il comparto che conosce l'incidenza più alta di lavoratori stranieri (in stragrande maggioranza donne) è quello dei servizi domestici e di cura della persona, dove la loro quota è del 68.9% e che assorbe ben il 42% di tutte le occupate straniere in Italia.
Come noto, quello dei servizi domestici e di assistenza presso le famiglie è un comparto non solo caratterizzato da un'ampia sacca di lavoro nero e grigio, privando le lavoratrice straniere di una serie di tutele e di garanzie, ma per le condizioni in cui viene svolto comporta spessi notevoli sacrifici esistenziali.
CI AIUTANO A CASA NOSTRA E SI AIUTANO A CASA LORO
Sebbene inseriti nel mercato occupazionale nelle condizioni di svantaggio descritte, ai lavorati immigrati è ancora ascrivibile il 9% del pil nazionale (pari ad un valore aggiunto di 139 miliardi di euro annui) e l'entità delle loro rimesse non solo è aumentata sensibilmente, passando dai circa 5 miliardi di euro del 2017 ai ben 6.2 miliardi del 2018, ma ha ancor di più sopravanzato quanto l'Italia destina agli aiuti internazionali di sviluppo. Infatti, se già nel 2017 questo importo era inferiore di qualche miliardo al flusso di rimesse inviate dagli stessi immigrati nei propri paesi di origine, nel 2018 il gap si è allargato ancor di più non solo per il descritto aumento delle rimesse ma anche per il contestuale decurtamento della quota nazionale riservata, appunto, agli aiuti allo sviluppo, la quale, già più bassa di quella cui l'Italia sarebbe tenuta, nel 2018 è stata tagliata di circa un terzo. Così, all'inconcludente retorica dell'aiutiamoli a casa loro si può rispondere, a ragion veduta, che in realtà ad aiutarsi a casa loro ci pensano già, e molto più, loro stessi.
A ciò che si aggiunga che, anche nel 2018, il saldo nazionale tra entrate e uscite complessive è risultato positivo, per lo Stato, di 200mila euro nell'ipotesi minima e di 3 miliardi di euro nell'ipotesi massima.
A tal riguardo, colpisce che il dibattito politico sia stato incanalato per mesi sui 5 miliardi di euro annualmente spesi dallo Stato (in realtà in parte coperti da fondi dell'UE) per l'accoglienza e l'integrazione dei migranti invasori, quasi a giustificare, davanti all'opinione pubblica, l'opportunità di decurtare tali fondi per spostarli piuttosto sui rimpatri degli irregolari trattenuti nei Centri di permanenza per il rimpatrio, e molto poco si dice sui 109 miliardi di euro annualmente persi dallo Stato a causa degli evasori fiscali e contributivi, in stragrande maggioranza italiani.