Provate a fare un gioco. Usando Google Earth, andate sulla mappa di Berlino. Noterete che i confini della città, la linea di demarcazione che la separa dalla campagna circostante, è un margine netto.
Ripetete lo stesso esperimento andando sulla mappa di una qualsiasi città italiana: salterà subito all’occhio come lo stesso confine sia sfrangiato o del tutto scomparso.
In gergo tecnico questo fenomeno si chiama “frammentazione dei margini urbani” e si misura con un indicatore chiamato densità dei margini: più alto è il suo valore, meno la città risulterà compatta.
In Italia, il capoluogo di regione dove l’indice di densità dei margini è più alto è L’Aquila (1,267) mentre quello dove è più basso è Torino.
E’ uno dei dati contenuti nel Rapporto Ispra sul consumo di suolo, di cui avevamo già parlato qualche tempo fa.
Dal dossier viene fuori un quadro abbastanza preoccupante per il nostro territorio.
La provincia dell’Aquila, infatti, è quella in cui il consumo di suolo netto, nel 2018, è cresciuto di più in percentuale rispetto al valore del 2017 : +0,72%. A seguire ci sono le province di Cagliari (+0,60), Verona (+0,57%), Vicenza (+0,50), Potenza (0,52), Pescara (+0,46%) e Fermo (+0,45%).
Il Comune dell’Aquila, poi, ha fatto registrare, nell’ultimo anno, un incremento di superficie artificiale di 28,8 ettari, il valore più alto d’Abruzzo (seguono Carsoli con 11,9 e Avezzano con 9,3).
Questo processo di cementificazione inizia da lontano ma è letteralmente esploso dopo il terremoto, come spiega Bernardino Romano, docente di Pianificazione territoriale all’Università dell’Aquila, che ha partecipato alla stesura del rapporto Ispra: “L’Italia ha consumato, dal dopoguerra alla fine del millennio, una media di 70 ettari di suolo al giorno, per poi attestarsi, dal Duemila ai giorni nostri, intorno ai 30 ettari. L’Aquila per diversi anni era riuscita a tenersi al riparo da questo fenomeno, che aveva interessato più altre regioni, in particolare Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto. Dopo il sisma, però, si è verificata una specie di rincorsa al tempo perduto e ciò a cui abbiamo assistito è una vera e propria polverizzazione urbana, un dilagare di aggregati molto piccoli, fatti anche da un solo edificio”.
Siamo, osserva Romano, ben oltre lo sprawling, il concetto che spesso si è usato per descrivere l’esplosione urbana verificatasi nel post sisma, alimentata principalmente dalla costruzione di nuovi insediamenti, dal Progetto Case alle casette di legno fino ai nuovi centri commerciai: “Per rendere meglio l’idea, abbiamo coniato un nuovo termine: sprinkling, che sta a indicare proprio questa polverizzazione”.
Per capire di cosa parliamo, basti pensare, afferma Romano, che “mentre la media dell’urbanizzato pro capite nazionale è di 350 mq per abitante, nell’area della conca aquilana questo valore tocca i 500 mq”.
“Tutto ciò ha delle conseguenze non solo ambientali, in termini di frammentazione e impoverimento dell’ecosistema, ma soprattutto nella gestione dei servizi pubblici. La bassissima densità e la grande distanza che intercorre tra i nuclei abitativi rende difficilissima, per esempio, la sostenibilità dei sistemi di trasporto pubblico hub-spoke e crea problematiche per la raccolta dei rifiuti, il cablaggio, la realizzazione delle reti di illuminazione pubblica. Il perché avviene tutto questo è semplice: più si allungano le linee di queste reti, a fronte di basse densità servite, e più diventa complicato e costoso, per un’amministrazione comunale, avere le risorse per gestirle”.
E’ la ragione per cui due aziende come Ama e Asm sono da anni in crisi: Ama sarebbe già fallita se il Comune non l’avesse ricapitalizzata mentre Asm ha praticamente preso atto del fallimento della raccolta differenziata porta a porta - malgrado all’Aquila si paghi la Tari più alta d’Abruzzo – tant’è che sta tornando al modello delle isole ecologiche di quartiere.
Al di là degli errori contingenti e di gestione imputabili a questo o quell’amministratore, le due aziende pagano dazio al fatto di dover coprire un territorio vastissimo dove la densità abitativa è bassissima e dove non si riesce a raggiungere una una massa critica sufficiente a coprire i costi di quei servizi.
Per invertire la rotta, servirebbe un vero e proprio cambio di paradigma per quanto riguarda gli strumenti di programmazione e pianificazione territoriale e urbana.
“Con il nostro gruppo di ricerca” dice Romano “stiamo lavorando proprio all’elaborazione di metodi di de-sprinkling, ma la legislazione italiana non è ancora attrezzata per effettuare e mettere in atto processi del genere. Non abbiamo normative di riferimento a supportarci né tecnici capaci e formati per elaborare metodologie in questa direzione. Quello che manca è soprattutto una sensibilità diffusa delle amministrazioni locali. Non bisogna mai dimenticare infatti che le decisioni sullo sviluppo urbano in un paese come l’Italia, dove da molti anni si è smesso di produrre documenti di pianificazione strategica, sono demandate in larga parte a livello comunale”.
Consumo di suolo e perturbante urbano
Vivere in città “polverizzate” come L’Aquila ha delle ripercussioni pesanti non solo nelle finanze municipali ma anche sulla psiche delle persone.
Enrico Perilli, psicologo e psicoterapeuta, docente di psicologia dinamica e psicoanalisi all'Università degli Studi dell'Aquila, ha preso un concetto elaborato da Freud, quello di perturbante, e lo ha applicato alla costruzione e allo sviluppo delle città.
Ne è venuto fuori un libro, Il perturbante nell’espansione urbana – Elementi di psicologia dei luoghi, dove sono stati messi a frutto “quattro anni di lavoro di un gruppo di ricerca congiunto tra ordine degli psicologi e ordine degli architetti d’Abruzzo che si era interrogato sulla ricostruzione dei luoghi a seguito di una calamità naturale. Da lì” spiega Perilli, che ha alle spalle anche una lunga esperienza come consigliere comunale “ho preso spunto, andando oltre e riprendendo un lavoro del 2012, su come le idee dominanti della nostra epoca influenzino le nostre modalità di vivere”.
Nella psicanalisi, il perturbante è l’irruzione di elementi angoscianti e terrifici nella vita quotidiana, il rovescio della medaglia di tutto ciò che è domestico e familiare.
Il perturbante, osserva Perilli, si manifesta anche nella costruzione delle città come lato oscuro e minaccioso dei luoghi.
Il perturbante è costituito per esempio dalle periferie degradate che, anche quando divengono oggetto di progetti di riqualificazione e ricostruzione, finiscono per mostrare il loro doppio, ovvero abbandono, miseria, sovrappopolamento, assenza di servizi e condizioni di vita difficili: “Alcune riqualificazioni urbane, come Scampia a Napoli o Corviale a Roma, erano delle grandi utopie negli anni ’70: dovevano servire a restituire luoghi identitari e di vita. Sono diventanti l’esatto contrario, la manifestazione del perturbante. Il disegno non è stato portato a termine come doveva”.
In questo scenario, L’Aquila offre spunti di riflessione interessanti, patendo, a seguito del sisma, i problemi delle grandi città, pur essendo un centro di piccole dimensioni.
“Ciò che è accaduto qui sarebbe accaduto comunque, ma c’è stata una accelerazione dovuta alla ricostruzione”, sostiene Perilli “Si sono ricostruiti tantissimi luoghi da abitare, per gran parte vuoti, e si è persa l’identità del luogo. L’Aquila ha un potenziale abitativo per 136 mila persone - tra progetti Case, Map, casette della delibera 58 e un avanzo di piano regolatore – ma i residenti, sulla carta, sono meno di 70 mila. Questa crescita sproporzionata ha frammentato la città e l’ha resa piena di non luoghi. Prima L’Aquila non era così: anzi, il centro storico era un luogo che restituiva identità e senso di comunità. Pensiamo a viale della Croce Rossa: è un esempio emblematico di non luogo, organizzato sul bisogno del negotium, dell’affare, del commercio. Nelle altre città è accaduto lo stesso”.
Altro aspetto del perturbante dei luoghi è anche l’abbandono dei centri montani e rurali, svuotati progressivamente di vocazione, servizi e quindi abitanti.
“Come accade nelle grandi città, anche chi vive in campagna passa metà del suo tempo in macchina: la differenza è che in città si sta fermi in coda, in campagna si percorrono lunghe distanze. Nelle grandi città soffriamo l’ingolfamento dovuto ai grandi numeri – si sono ammassate persone e costruiti palazzi senza pensare alla dimensione umana – le campagne, invece, sono state private di tutti i servizi, è venuta a mancare la comunità che si fonda, come abbiamo detto, su valori, culture, tradizioni e storie condivise oltre che su occupazioni per il presente. Essendosi urbanizzato il mondo, questi luoghi sono rimasti privi di comunità e il tentativo di rianimarli portandovi masse di turisti va nella stessa direzione che ha causato lo spopolamento, cioè qualcosa di funzionale al profitto ed al lavoro: la comunità, però, è qualcosa di più. Ecco perché si dovrebbero riportare servizi, piuttosto, scuole ed attività che le persone possono praticare rimanendo lì”.