“L’Aquila ha dinanzi a sé un anno di giubileo, ma si deve svegliare. La Perdonanza non è quella che viene intesa oggi, non è una semplice indulgenza - ovvero l’assoluzione dalla pena dovuta ai peccati - ma è appunto un giubileo: una riconciliazione sociale collettiva con cancellazione dei debiti.
Questo voleva Celestino V, eppure, come detto all’apertura dell’anno giudiziario, questa città è una delle più litigiose d’Italia in proporzione agli abitanti!”. Questo l’ammonimento lanciato da padre Quirino Salomone, frate francescano, giornalista e studioso di cose celestiniane, per oltre vent’anni rettore della Basilica di Santa Maria di Collemaggio, nel corso della presentazione della versione aggiornata del suo libro “Celestino della gente” (Edizioni Celestiniane, 156 pagine): un compendio della vita, delle opere, della filosofia e dei principali misteri che ruotano attorno all’affascinante figura di San Pietro dal Morrone.
La pubblicazione è disponibile a offerta libera nella chiesa di San Bernardino in piazza d’Armi, che ha ospitato l’evento, intitolato “La Perdonanza: l’utopia possibile?” e arricchito dall’intrattenimento musicale dedicato al papa del perdono dai chitarristi Vincenzo Guglielmi e Ilenia Tancredi. L’autore è stato intervistato dal giornalista Alberto Orsini che, in avvio, ha descritto una figura di un eremita, papa e santo “ben diverso da alcuni concetti basici e del tutto sbagliati che di solito conosciamo.
Era invece - ha affermato - un imprenditore, nel senso nobile del termine, capace di far sorgere una rete di monasteri e di condurre un eremitaggio coinvolto e integrato nella realtà sociale; un manager, in grado di far costruire una grande opera come Collemaggio, che oggi impiegherebbe decenni; un politico, abile a trattare con re, altri papi, cardinali per far istituire il suo ordine: se avesse voluto, avrebbe potuto prendersi la Chiesa”. Ma non era certo quest’ultimo lo spirito di Celestino, come rimarcato da padre Quirino spiegando il titolo del suo volume. “Non era un personaggio da accademia, da salotto. Era della gente, perché della gente aveva premura - ha rimarcato - E quando incontrava le massime autorità di allora, era per piegare il potere al servizio alla gente. Un riguardo ai destinatari del suo esempio, del suo amore, della sua voglia di riscatto”.
Tra i temi su cui il francescano ha voluto porre un accento particolare, la questione dell’identità di “colui che fece per viltade il gran rifiuto”, appioppato a Celestino V da una parte della critica dantesca in relazione alla misteriosa figura descritta da Dante Alighieri nel terzo canto dell’Inferno, prima cantica della Divina Commedia. “Dopo tanti studi, tanti docenti che ci si sono dedicati, dopo l’anno del settecentenario dantesco che è passato, che cosa si è imparato? Possibile che non si riesca a rivedere questo errore? Dante non avrebbe mai potuto definire in quel modo un uomo considerato santo già in vita.
Non me la prendo con lui, ma con tanti commentatori - ha precisato - Nel mio libro elenco almeno sei-sette caratteristiche che escludono in modo perentorio che si tratti di lui. Coloro ‘che mai non fur vivi’, come viene detto nelle terzine successive, sono quelli che non ricevettero il battesimo, e già qui ogni discorso si ferma. È un delitto di cattedra formare le coscienze al vilipendio di un giusto, di un uomo rispettabilissimo perfino da chi non crede alla santità.
Facciamo un dibattito, una tavola rotonda, parola per parola, rileggiamolo e ristudiamolo”. Impossibile non rivolgere un cenno alla cronaca più recente, l’approdo di Papa Francesco alla 728a edizione della Perdonanza. “La sua eredità è di aver fatto conoscere il nome di Celestino, della città dell’Aquila, della basilica di Collemaggio, ma soprattutto di questa parola: Perdonanza.
Era una volontà indiscutibile, un’ordinanza di perdono, da osservare e basta. Celestino valutò che a mancare era proprio la riconciliazione. Senza di questa, passare per la porta santa è semplice superstizione”. “La sveglia che voleva dare e che oggi L’Aquila deve darsi - ha aggiunto ancora - era: datevi una mossa, ricostruite la città su cui è stata pronunciata una benedizione, che ha conosciuto un meccanismo veramente di privilegio.
La scelta dell’Aquila, città nascente, di questa basilica da lui voluta, era un modo con cui voleva dare un contrappeso allo sforzo che la popolazione avrebbe dovuto fare per vivere in pace”. “Un’utopia”, ha ammesso in conclusione l’autore, spiegando il senso del titolo del convegno, “perché nessuno riesce a compiere davvero fino in fondo lo sforzo di questa riconciliazione.
Ma un’utopia possibile, perché arriveremo a un punto in cui non ne potremo più di stare nell’inimicizia - ha assicurato Salomone - Con un po’ di buona volontà e con l’aiuto dello spirito santo questa utopia può essere superata. La scienza fa progressi, la civiltà avanza, manca solo uno sforzo morale e questo sta avvelenando le relazioni tra le persone”.