Martedì, 04 Aprile 2023 09:21

Perché è giusto che se ne parli

di  Redazione

Riceviamo e volentieri pubblichiamo, un intervento della dott.ssa Ilaria Carosi, Psicologa-Psicoterapeuta, che prende spunto dalle recenti notizie di cronaca.

Nei giorni scorsi la città e la provincia dell'Aquila sono state scosse da due fatti di cronaca che hanno richiamato l'attenzione dei principali media nazionali e suscitato nella popolazione sentimenti e pensieri discordanti, accomunati da un'elevata intensità emotiva e dalla necessità di provare a comprendere -ex post- cosa possa aver determinato degli esiti così drammaticamente infausti.

Lo spettro della depressione è stato tirato in ballo a mo’ di torvo deus ex machina che, anziché risolvere, ambirebbe probabilmente a chiudere discussioni che restano -e che dovremmo lasciare-decisamente aperte. Le spiegazioni lineari e parziali, che pure abbiamo letto un po’ ovunque in questi giorni, sono psichicamente necessarie e funzionali a ristabilire l’ordine alterato dall’atroce.

La necessità di ricostruire nella propria mente una narrazione “rassicurante”, talvolta semplicistica, talvolta marcatamente giudicante ma accettabile per sé, coerente, risponde all’esigenza di ridurre la dissonanza cognitiva ed emotiva che certi eventi ci fanno sperimentare ed è una di quelle protezioni psichiche che mettiamo automaticamente in atto di fronte al drammatico. Di fronte alla morte, tanto più se cruenta. Tuttavia, esistono perlomeno tre piani che si intersecano e che contribuiscono a quella complessità che si trova a considerare chi fa il mio lavoro e che si contrappone alla linearità di più immediato sentire.

Sono il piano umano, quello giuridico e quello psichico. E, va ribadito, sono piani distinti, seppur interconnessi. Posso pensare, sentire e anche tentare di comprendere -che non vuol dire giustificare- qualcosa sul piano umano, non mi esprimo assolutamente su quello giuridico perché non mi compete, analizzo il piano psichico, quello che più mi riguarda da vicino, vista la professione che esercito.

E, con tutto il rispetto e la delicatezza che le due situazioni salite alla ribalta della cronaca richiedono e mi suscitano, mi interrogo e delineo nella mente ipotetiche risposte, in base a quelle che sono le mie conoscenze ed in base a quello che è la mia esperienza clinica. Interrogarsi serve ad imparare da ciò che accade. Interrogarsi è il pungolo per provare a fare meglio o forse anche di più, in futuro. Mi basta questo? No.

Perché il mio primo sentire è stato di rabbia e la rabbia, nei giorni, persiste. Mista a quella frustrazione che si prova non per senso di onnipotenza, tutt’altro: chi fa il mio lavoro si confronta di continuo con il limite che tantissime situazioni di disagio psichico comportano. Si impara ad accettarlo, quello. È la certezza che si faccia troppo poco per la salute mentale ad alimentare rabbia e frustrazione.

Troppo poco non solo in termini di servizi e disponibilità di cure per tutti. Parlo del prima. Perché parlare di salute mentale non significa parlare dei matti. Non significa solo disquisire di malattia e di sofferenze, di sintomi da curare. Dovrebbe anzitutto significare prevenire i disagi investendo in programmi strutturati, concreti e diffusi che insegnino fin da bambini a prendersi cura della propria salute psichica ed emotiva, a riconoscere le proprie emozioni e quelle degli altri, a condividerle e a rispecchiarsi reciprocamente, contribuendo ad affinare quelle capacità empatiche che oggi sappiamo dipendere anche dalle esperienze fatte -tanto più se precoci- e da un modellamento neuronale che prevede il rispecchiamento come modalità relazionale atta a favorire lo sviluppo di quel senso di sicurezza necessario alla costruzione del Sé.

Avere riguardo per la salute psichica significa imparare a riconoscere quali sono gli eventi di vita che possono minarla nel profondo,perché è proprio quando non sappiamo identificare i rischi che siamo più soggetti ad incorrere negli abissi di alcune psicopatologie. Riconoscere (e dunque riconoscersi) quelli che per noi specialisti sono evidenti sintomi di disagio, purtroppo non è ancora la norma. Si fa troppa fatica a correlare gli effetti, soprattutto quelli a lungo termine,a quegli eventi di vita stressanti,quando non marcatamente traumatici, che possono averli determinati.

E sono proprio quelli a minare le nostre stabilità emotive, sono proprio quelli a fungere da trigger e a destabilizzare, noi specialisti lo sappiamo e lo vediamo accadere di continuo. E allora, probabilmente, dobbiamo fare di più. Andrebbe insegnata la fra(n)gi(bi)lità come possibilità. Andrebbe insegnato che chi diventa capace di flettersi non si rompe. Invece, viviamo nell'epoca del Sé ipertrofico e dell'onnipotenza narcisistica, viviamo in società che lasciano di continuo indietro le fragilità. Viviamo nell'epoca del revisionismo e della negazione, troppo impegnati ad edulcorare, sminuire, nascondere, dissimulare, troppo impegnati a non dire oppure a ricercare parole nuove -non ci servono! - che coprano la pesantezza, la drammaticità, il dolore psichico che certe situazioni o vicende di vita ci comportano.

Troppo impegnati in generale, per guardare agli altri o per guardare a noi stessi, continuamente vittime della paura di scivolare in quegli abissi che gli antichi greci esorcizzavano anche mettendoli in scena, nella tragedia. Perché non solo si poteva narrare, il tragico, ma anche rappresentare: indossare i panni dell'altro, immedesimarsi, era un modo per prevenire, affinando empatia e riconoscimento reciproco di emozioni che ci accomunano in quanto umani. Non era rischioso, era catartico.

Andiamo via via perdendo abilità sociali e a farne le spese siamo solo noi, immersi in una solitudine che stritola e che talvolta impedisce di chiedere e di ricevere aiuto, non sempre si trovano parole per farlo, anche quando i segnali sono sotto gli occhi di tutti. Viviamo in un'epoca drammaticamente triste -tragica- e non è consolatorio l'esserne consapevoli.

Qualcuno ha invocato il silenzio, di fronte alla drammaticità degli eventi. Stavolta, penso che restare in silenzio possa diventare parte del problema. Iniziamo, magari. Iniziamo con il costruire narrazioni diverse e, poi,facciamo concretamente.

Ultima modifica il Martedì, 04 Aprile 2023 09:33
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