E adesso io qua sola in questa veglia di secoli
seduta nell'angolo della stanza presso all'uscio
dietro la finestra illuminata nella notte
aspetto l'ora del tuo ritorno a casa
(Elsa Morante, Il mondo salvato dai ragazzini, Addio)
Di Francesca Giammaria* - Il sale della terra inizia con un'etimologia: foto-grafia. Scrittura di luce.
Non si tratta di una nota ammiccante, di un vezzo. Di ammiccante il film non ha nulla. Anzi, lo spettatore si sente immediatamente spaesato, o meglio dislocato, quando si rende conto che il film è un succedersi di immagini ferme. Di foto-grafie, appunto.
I due terzi del film hanno come oggetto la ferocia umana e il dolore. Si è molto dibattuto, per quanto ne so, sull'estetica del dolore.
È possibile un'estetica del male? Si può scrivere il dolore senza offendere la vittima e senza strizzare l'occhio allo spettatore?
Il film cerca una possibilità, ma di fronte a un'umanità che nega e annienta se stessa, di fronte all'umiliazione, alla negazione, esso non può che dire una negazione: non mi muovo. Si priva, cioè, di quello che ha fatto del cinema il cinema, ovvero dell'immagine in movimento.
È un atto estremo, ma non è un silenzio, né una morte. Il film non rinuncia a raccontare, ma il racconto è dato da immagini fisse, immobili. Non è il cuore che smette di battere, ma il cuore che batte piano, colpo per colpo. Il dolore degli uomini, la disperazione in quanto grido estremo di vita.
A muoversi, sono solo le scene in cui compare l'autore delle fotografie. L'uomo che decide di scrivere, di scrivere la luce.
Il succedersi delle foto chiarisce il senso dell'etimologia. Straordinariamente, lo spettatore vede la scrittura della luce: la verità dei corpi, eternizzata da un atto di scrittura (lo scatto) che intende fissare, per sempre, un'umanità altrimenti destinata all'oblio. Una luce, un atto, nel male che è tenebra e nullificazione.
Nell'ultima parte il film riprende a muoversi. Le immagini a colorarsi. La natura a rinvigorirsi.
Il viaggio all’inferno ha ammalato il viaggiatore. L’unica speranza di vita è di nuovo introdotta come un atto di scrittura: ‘al pianeta, volevo scrivere la mia lettera d'amore’.
Al centro dell'immagine immobile adesso non c’è più l'uomo ma la natura, colei che nasce, è nata e dà la nascita.
L'uomo non è più nelle immagini ferme, l'uomo adesso è colui che ferma l'immagine: dove il mondo è esattamente come al tempo della genesi. Un'altra parola chiave: genesi, gigno, genero.
Il germoglio è spesso metafora della nascita. Nella storia di Salgado, la metafora è, prende luogo e forma. È quello che accade nella poesia.
Un film sulla testimonianza diventa esso stesso testimonianza: che cosa è possibile nel luogo dell'impossibile.
È una storia di resistenza, se è dato ancora il nascere, nel luogo del morire.
Il film di Wenders-Salgado costringe ad interrogarsi sul proprio sé, sulla possibilità di esistere, di resistere, dopo aver fatto esperienza del male.
Un'esperienza necessaria: Salgado non può non andare in Ruanda nel 1994. La conoscenza dell'uomo, della luce da scrivere, deve passare attraverso i luoghi in cui la luce è negata. Il luogo del genocidio, dello sterminio di massa, della fame.
Il luogo del dolore di altri uomini è un luogo necessario all'essere, un essere che sia etico, nel mondo. Se i greci dicevano che la conoscenza passa attraverso il dolore, sarà in questo contesto necessario dire ‘il dolore degli altri.’ Perché il dolore proprio, auto-biografico, ammala, ce lo dice lo stesso Salgado (‘mi ero ammalato’).
Elsa Morante, nel canto di lutto che apre Il mondo salvato dai ragazzini, ci ricorda come sopravvivere a un morto sia un’indecenza, della quale si chiede perdono (‘perdonami questa indecenza di sopravvivere’). È, credo, proprio la richiesta di questo perdono che radica nell'etica l'unico modo possibile di perpetrare l’indecenza di esserci nonostante tutto.
Subito dopo il terremoto del 2009, Bruno Vespa e i suoi assalirono L'Aquila. In particolare assalirono la piccola e martoriata Onna.
Devo ricorrere ora, a dei particolari biografici, sono necessari al mio dire.
Onna è stata a lungo, per me, un luogo incantato, tracciato con la sola fantasia. A Onna la mia compagna di banco del ginnasio raccontava di andare a passare i fine settimana con i suoi genitori, le brillavano gli occhi. Dopo il liceo, si trasferirono lì. Quel piccolo borgo erano per me le storie che mi raccontava la mia compagna, Roberta, dei suoi amori, del mi piace quello ma anche quell'altro, dei baci rubati.
Immagino che quei racconti avessero per me un sapore dolce amaro, perché in quegli anni scoprivo anch'io, prematuramente, l'essenza del male. Lo scoprivo nei corpi, perché il male è sempre del corpo e nel corpo. Per destino familiare, facevo esperienza degli ospedali.
Allora, varcavo il cancello delle cliniche di riabilitazione per traumatizzati cranici, e quel cancello divenne presto il confine tra due mondi, di cui sapevo esattamente quale fosse il paradiso e quale l'inferno.
L'inferno delle ragazze e dei ragazzi ricoverati, dei loro corpi immobili, dei cervelli che non funzionavano bene o non funzionavano affatto. C'erano sonde, tracheotomie, bocche chiuse, salive. E c'era la perdita della memoria. Intendo la memoria a breve termine, per così dire biologica, di mangiare e poi non ricordare di aver mangiato, di vedere una persona e poi dimenticare di averla vista.
Ma chi non può ricordare, a un certo punto, forse per disperazione, forse per necessità, inventa. ‘Come stai?’ Chiede il saggio, l’homo sapiens e sano con imbarazzo ‘io sto bene - tu come stai. Ho mangiato la pasta e l'abbacchio’, risponde il traumatizzato. ‘Ma come’, riprende il saggio ‘sei alimentato con un sondino nel naso e al massimo puoi mandar giù degli omogeneizzati! Non dire bugie...’
Che crudeltà: queste persone, secondo i saggi, sani e sapientes, dal loro vuoto non potevano inventare nulla, dovevano rimanere nel vuoto, continuare ad essere letto e sonda. È che tutti volevamo quello che avevamo prima. Eppure, da quelle invenzioni, ripartiva la vita.
Quando tornavo in paradiso, nella mia L'Aquila delle mani viola nei mattini d'inverno a sotto zero, non potevo credere che tutti 'non sapevano'. Mi dicevo che dovevano sapere. Al tempo leggevo i romanzi russi, ed io avrei scritto un romanzo russo sulla vita dei traumatizzati cranici, perché tutti sapessero.
Quante volte cammino per L'Aquila, oggi, e non posso fare a meno di leggerne la storia con il linguaggio della mia biografia (mi sono ammalata), leggere i palazzi puntellati come corpi in coma, immobilizzati e tenuti su da sonde, nutriti artificialmente, ‘traumatizzati’.
Così come i traumatizzati cranici ricordano la loro infanzia, L'Aquila ricorda i fasti del passato, ma soffre di una labile memoria a breve termine. Quando il corpo è ridotto a letto, se manca la vita, cosa si può ricordare?
Oggi anche il centro storico dell'Aquila inventa le cose da ricordare. Inventa l'Asilo occupato e Case Matte, inventa la pur da molti vituperata e pur per molti versi rattristante vita notturna.
Inventa nel deserto, perché quello che c'era prima il terremoto l'ha spazzato via, e inventa per ostinazione e per disperazione, perché quello che poteva esserci dopo non c'è stato e non c'è stato perché molti hanno voluto così.
La comunità che viveva il centro (e non solo 'al' centro) è stata deportata nelle terre di nessuno dei nuovi caseggiati con posto auto coperto. Dell'auto, oggi, hanno bisogno tutti. La comunità è stata privata della vita a piedi: per incontrare persone, per comprare qualsiasi genere di prima necessità, si sono ingranditi i centri commerciali. Dove non si va a piedi, non si può.
Ritorno al mio lessico famigliare: i post comatosi non camminano. Ma come inventano i ricordi e la vita, così si ostinano, se possono, a rifiutare la carrozzella e anche il bastone. Cadono. Si assumono la responsabilità e il rischio di cadere, spesso trascinandosi dietro il familiare che il accompagna e che non ne regge il peso nel momento del disequilibrio. Cadono perché vogliono vivere a piedi, anche se sono storti, zoppi, claudicanti.
Onna oggi non è più quel paradiso, ma alla mia compagna di banco del ginnasio gli occhi non hanno smesso di brillare al suono di quelle quattro lettere: insieme all'amore luccica il dolore.
Tutta la comunità aquilana, oggi, conosce l'inferno, ha varcato quella soglia e si dibatte tra la necessità di dire (di dire un romanzo russo, un romanzo di tanti romanzi insieme, un romanzo dell'Ottocento) e l'impulso a tacere, ché tanto il mondo ci ha voltato le spalle. L'impulso, finanche, a dimenticare. Ecco perché oggi, dopo il film di Wenders-Salgado, torno al mio luogo e alla mia storia.
Con gli anni ho capito che i romanzi russi potevano essere scritti solo in Russia e solo nell’Ottocento (peraltro, da quando vivo a Roma, ho perso la sensazione, direi sostanziale, di trovarmi in Siberia).
Totalità ottocentesche a parte, talvolta la parola manca per pudore, perché, come dicevo all'inizio, parlare del male, dell'offesa dei corpi e della morte, può essere un parlare onesto solo se è un parlare nudo. E spogliare il linguaggio è missione ardua, anzi: è impossibile.
La parola del resto non è che un involucro, una veste, là dove è l'abito che fa il monaco, o meglio: ci prova. Si fa quel che si può. È il possibile da farsi nel luogo dell'impossibile, dell'indicibile. È quello che fa Salgado con la sua foto-grafia e quello che fa Wenders con la biografia di Salgado. ‘Qua si può...si può...si può...si può…’, canta e ancora canta Elsa Morante, nell’Addio.
A tacere per pudore si corre il rischio di veder dilagare solo la parola disonesta, sporca, la parola della cattiva televisione e del cattivo giornalismo. Bruno Vespa a Onna. Le inquadrature sulle macerie, sulle lavatrici e i santini, i racconti straziati del padre che ha perso il figlio di 9 anni e la figlia di 14 (ogni giorno sento ancora la sua voce; vorrei che potesse parlare oggi).
Una scorreria di barbari nel luogo della tragedia, che è vendibile solo se è calda e solo se si derubano i protagonisti dei loro sentimenti più intimi e del loro diritto di nascondere il pianto (Odisseo, tra i Feaci, si nasconde mentre piange, perché vuole così). Il cattivo giornalismo, comunque, non risparmia nessuno, nemmeno i traumatizzati cranici.
Era il 1997, Rai due, per le sue storie pomeridiane; si era eccitati: la tv, la visibilità. Qualcuno disse: ‘signor Giammaria, si faccia la barba’.
Oggi, sorpassata la A24, su L'Aquila è caduto il silenzio. Andando verso Roma, superata la lunga galleria di San Rocco, spesso c'è il sole e la temperatura inizia a risalire. La lunga barriera di Roma Est con le sue interminabili code attende in discesa; di fronte, il tramonto accecante. Ancora oltre, le palme e l'oblio.
Nel paradiso dell'occidente, dell'assenza di fame, di guerra, e nel luogo della rimozione della diversità e del lutto, il film di Wenders-Salgado ci ricorda la necessità di una testimonianza che non sia saccheggio ma scrittura di luce. Di una biografia in cui il dolore per sé è anche e soprattutto dolore per l'altro. Un altro al quale scrivere una lettera d'amore, nonostante tutto, nell'indecenza impudica di esserci.
E ci ricorda, alla fine, come nel luogo della foresta massacrata possano essere ripiantati degli alberi. Dagli alberi ripartono ecosistemi: tornano gli animali, tornano gli uccelli.
*Francesca Giammaria è nata e cresciuta a L'Aquila. Vive a Roma dal 2000. Nel 2011 ha conseguito il dottorato di ricerca in Filologia Classica; esperito di come la filologia conduca al delitto (per dirla con Ionesco), oggi si dedica allegramente ad altro, tra cui l'italiano come lingua straniera, l'insegnamento nelle scuole pubbliche e il teatro laboratoriale