Giovedì, 21 Maggio 2015 15:22

Dell'insegnamento come impossibile a dirsi, a farsi, e a essere giudicato

di 

'Ma vieni vicino e almeno un istante, abbracciàti,
godiamoci il pianto amaro a vicenda!'
Tese le braccia, parlando così,
Ma non l'afferrò...
(Iliade, 23, 97-100)

- secondo lei come si può combinare amore e politica?
- Io non vedo la differenza tra amore e politica
(Judith Malina, in un'intervista al Teatro Valle Occupato il 12 Luglio 2013)

Io buco la tela e da lì entro nell'infinito
(Lucio Fontana)

Di Francesca Giammaria*

Parliamo di scuola.

Vorrei dire: "i primi mesi ho provato un forte disagio". Ma non posso: lo provo anche adesso. Soprattutto adesso.

I giorni in cui esco da scuola in condizioni ottimali, sono davvero pochi. Per lo più sono affranta da una frustrazione inconsolabile.

Il contesto è quello di gravi disagi sociali, economici, familiari. La scuola, media, è in un luogo che non è una periferia e non è nemmeno una città. È un lungo braccio di terra costiera a nord di Roma, che d'estate si fa dormitorio e villeggiatura della piccola borghesia romana. D'inverno è un luogo desolato, privo di un centro storico in cui convergano scambi culturali, economici, sociali. La vita, a Santa Marinella, non si sa mai dov'è. E non si può dire che non c'è, se può esserci una scuola media di circa 800 alunni.

Dov'è. Nelle case, nelle strade. Il mare è praticabile da maggio ad ottobre.

Il mare.

"Professore' oggi Giulio sta ar mare!" Erano le 8 del mattino di un lunedì di maggio.
"Benissimo, vado a chiamare sua madre". Fingo convinzione, ma ero senza speranza. La madre non risponde.

Il giorno dopo chiedo a Giulio, che è semianalfabeta e a scuola viene quando vuole, come fosse andata la sua gita al mare, se si fosse divertito, se sua madre l'avesse cercato. Sì, sì, sì. "Sì professore' verso 'e 11 m'ha chiamato mi madre e me dice Ah Giù ndo stai? E io glie dico sto ar mare e lei me dice no perché lo voleva sape' 'a scola".

Non dico nulla. Prendo i libri, e tento un qualche abbozzo (o aborto) di lezione. Intorno gli strepiti, le grida, i pianti, i pugni e i salti circensi.

Ci sono giorni in cui arrivo agguerrita, feroce, implacabile. Allora zittiscono, provano a seguirmi, almeno per il tempo che dura la mia energia dittatoriale. Ce l'ho con loro e con me stessa. A ogni salto, grido, riso, pianto o pugno, corrisponde un: tu! Fermo! Zitto! Seduto! A volte mi sembra di addestrare cani. Così smetto, e ricomincia la festa.

Mi dico che i bambini non più bambini e non ancora adolescenti hanno il diritto di fare i bambini non più bambini e non ancora adolescenti. Soprattutto se a casa hanno l'inferno. Per di più, rievocando Antigone, io "non all'odio, ma all'amore sono nata".

Ma l'amore non funziona. Trabocco d'amore, per loro, per i peggiori, guardo i loro occhi luccicanti di vita e di gioia (gioia! nonostante l'inferno!), e non so cosa farci. Dell'amore, intendo. Mi invade la voglia di prenderli, di portarli lontano, a casa mia, per sempre. Lavare i loro vestiti usurati e sporchi, comprargliene di nuovi, farli studiare. Coprirli di baci, far scricchiolare negli abbracci le ossicine dei magri, mettere a dieta i grassi. Amarli. Amarli.
Ma non posso. Non mi è dato, non mi compete, non devo.

Devo... Devo: l'educazione, mi dico(no). Dare educazione. Cosa vuol dire? Vuol dire che uno che vuole correre per la classe dovrà accettare di stare seduto e uno che lancia le palline da una parte all'altra dovrà smettere di farlo perché siamo in classe, siamo un gruppo, e dobbiamo garantire un contesto che renda possibile lo svolgimento della lezione che è dovere del docente dare e diritto dell'alunno ricevere. Uno che dice cazzo non deve dire cazzo; le battute sessuali non si fanno e la Madonna non si bestemmia.

"Ieri S.G. ha mostrato i genitali in classe!" Mi dice un collega, sconvolto e affranto.

Sembra che nulla funzioni.

Entrando nella mia 1b ho sempre come l'impressione di un tornado che mi prende e mi porta via. E dentro al vortice di tempesta: un ragazzino che piange - gli hanno rubato o rotto qualcosa o gli hanno dato un pugno sul naso - uno che grida che l'altro è scappato, altri in coro con le vocette stridule che tentano di prendere parte, un altro ha le mani nere verdi o rosse di inchiostro perché gli è scoppiata la penna o sporche di sangue perché si è tagliato, quello che è scappato salta sulle scale lanciandosi da un piano all'altro, altri due si azzuffano come cani rabbiosi, devono farsi male, le ragazze vanno in bagno, sempre in bagno, in due, in tre, in dieci, col diario, coi foglietti, i fazzoletti, e quando tornano si sono scambiate le magliette e i frontini e si guardano fiere di un qualche segreto.

Tento di iniziare la lezione, ma la lezione non inizia. L'invasione sulla porta si trasferisce sulla cattedra, intorno ai banchi; si muovono in massa, come gli sciami di api.

I maschi (è capitato così) hanno sempre qualcosa per cui piangere, gridare, lottare, questionare, picchiarsi. Le femmine stanno per conto loro. Alcune così timide da sembrarmi sempre traumatizzate, si guardano intorno come fossero allo zoo impietrite dalle tigri fuori dalle gabbie. Altre colorano serenamente il diario, ritagliano con le forbici.

Dico loro togliete tutto, ma non ascoltano: fantasticano. Qualcuna studia da sé, ligia al dovere fino in fondo, sopra a un sottofondo di strepiti. Di nuovo: l'unico modo per porre fine al caos è gridare.

Talvolta grido, così ho cinque minuti di lezione, per tornare a gridare ancora, per altri cinque minuti di lezione. Ogni grido mi vale cinque minuti d'ascolto. Ma anche meno.

Se non grido, tuttavia, soccombo. Finisco per gettare gli occhiali sul registro, mettermi le mani alle tempie, guardarli con tristezza, con disgusto (il disgusto li placa leggermente), oppure con dolore.

Guardo negli occhi le ragazzine timide cercando un qualche complice conforto. Talvolta mi viene da piangere (e una volta ho pianto) e l'impulso è così forte che devo uscire dalla classe. Dico loro stizzita: "esco, chiamatemi quando sarete in grado di fare lezione".

La verità è che ho il cuore distrutto, che mi sento impotente, fallita. Che la mia idea di scuola funziona tra gente che è già salva. Salva. Salvare, salvare chi, salvare da cosa e perché. Dall'ignoranza, per il sapere. Ma il sapere di chi? Mi ossessiona l'immagine del piccolino con la tuta rotta, di quello viscido col muco al naso, di quello che non accetta regole, del figlio della madre alcolista, dello sgorbietto tutto storto coi denti gialli e spezzati che non vede sua madre da cinque anni. Di tutti quelli che non riesco a gestire. O a salvare. Ma le ideologie di salvazione, lo sappiamo, sono le stesse delle dittature.

Insegnare, così come psicoanalizzare, è un mestiere impossibile. Lo dice un grande psicoanalista, il grande Jacques Lacan.

Già Freud constatava sui suoi pazienti, seduta dopo seduta, che il paziente, nonostante la sua domanda di felicità, gli sforzi d'animo e il dispendio di denaro, non vuole guarire.

L'attaccamento al proprio dolore, alla propria mancanza a essere, è più forte di qualsiasi prospettiva di salvazione ("toglimi anche il mio dolore, e non sarò più niente!").

Il soggetto gode della sua sofferenza. È un paradosso per il quale la grande psicoanalisi sospende ogni speranza di guarigione. Il fine della terapia non sarà dunque quello di salvare il soggetto, di guarirlo, estirpando il sintomo che lo fa soffrire, ma rendere questo sintomo sopportabile, nel migliore dei casi trasformando il sintomo in qualcosa di vivifico.

La psicoanalisi patteggia con l'impossibile (la guarigione), per guadagnarne non solo in termini di possibilità, ma in termini di rispetto e vivificazione della singolarità di ogni soggetto.

In molti casi l'analista tace. "Tace sull'amore", si è detto. Tace perché non ha un sapere da consegnare ma un buco da aprire.
Rifletto spesso su tutto questo, quando mi arrovello sul come saperci fare, in una classe tanto difficile. Le grida dittatoriali, è vero, mi permettono di essere ascoltata. Ma è un'illusione.

Le grida dittatoriali permettono a me di parlare, ma non è detto che permettano loro di imparare. Ogni strategia che provo si rivela vincente oggi e fallimentare domani, vincente sull'uno, fallimentare sull'altro. E come potrebbe essere diversamente, se io stessa, adulta e istruita, oggi desidero una cosa, domani (prima, prima di domani!) cambio idea, ora esplodo di gioia, tra pochi minuti vorrò uccidermi, ora desidero leggere, sapere tutto lo scibile umano ed enciclopedizzarlo, ora stordirmi fino a non capirci più nulla (e avvicinarmi al vero!).

Qualche giorno fa, sul social, condividendo qualcuno di questi pensieri, sono stata insultata da un giovane sconosciuto che si trovava non so come tra i miei contatti. Un maestro elementare. Parlavo con scherno della mia frustrazione, dell'isteria che mi prende in questi bollenti giorni di lotta politica in vista dell'approvazione dell'agghiacciante ddl "La buona scuola", scrivevo iperbolicamente che meditavo di farmi ardere viva davanti al ministero dell'istruzione, e suffragavo il tutto citando tra le righe alcuni versi (non certo i più eclatanti, ma forse tra i più commoventi) de La locomotiva di Francesco Guccini: "e un giorno come gli altri, ma forse con più rabbia in corpo...".

Questo giovane ha commentato il mio post affermando che una come me deve "stare lontana anni luce dalla scuola" e "tu sei molto peggio di Renzi, perché almeno Renzi parla con coscienza mentre tu vaneggi", "l'isteria è un male, curala" e finanche "io sono un pedagogo, mentre tu che non credi nell'educazione sei un'ignorante".

Proprio così. È così che funzionano i commenti tra estranei sui social, ed è per questo che non interagisco mai con estranei: l'insulto gratuito mi annichilisce. Ma, if you can't stand the heat, get out of the kitchen, o tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino: dovrei non esserci, sul social, ma ci sono. Prendiamoci i punti sulla fronte. E ragioniamo. 

Il pedagogo maestro elementare mi dà della pazza, sostiene che l'isteria sia un male da curare, e chiude la conversazione bloccando ogni mia possibilità di risposta (altra crudeltà del social: si può insultare imbavagliando l'insultato per non farlo reagire). Ma io rispondo, rispondo al nulla: l'isteria è desiderio e l'anima della ricerca è un'anima isterica. Se lui è un pedagogo allora io sarei una filologa classica. E se lui educa, allora io interpreto, e dove lui cura io congetturo, là dove il pedagogo sa, io pongo la crux.

La crux desperationis è qualcosa che ho sempre amato molto della filologia. Il simbolino fa un effetto buffo, soprattutto agli studenti di primo pelo: che ci fa una simile croce su un libro di scuola, nel bel mezzo di austeri caratteri greci?
Al liceo mi faceva sorridere, la trovavo irriverente, oggi mi ricorda la croce di Gesù, la croce dei morti e la croce del dolore che ci portiamo sulle spalle ogni giorno. La crux filologica arriva alla fine della fine di ogni tentativo di risolvere, di emendare, di rattoppare, di curare un testo ferito. C'è un punto in cui il filologo non può più dire nulla: il buco in un papiro di Saffo, un vuoto di pensiero o di senso in un testo di Cicerone. Accade.

A scuola, diversamente, nella didattica istituzionale, sembra che tutto possa essere e debba essere fatto. Da una parte si parla di inclusione, di bisogni educativi speciali, dall'altra si ricerca la disciplina con una didattica dittatoriale, carceraria ("professoressa in quella classe deve avere il pugno di ferro", mi dice la psicologa della scuola), educativa, affinché tutti siano educati a obbedire.

Ogni disagio è una diagnosi, ogni mancanza è una dicitura: disgrafia, dislessia, disturbo misto di apprendimento, disturbo dell'attenzione e addirittura, e di gran moda, iperattività.

Bisogna essere molto concentrati, per non lasciarsene contagiare. I pedagoghi sono in molti.

Con la riforma di Renzi, un preside, burocrate e pedagogo, potrebbe dirmi che un'insegnante che piange in classe è un'insegnante incapace e che un'insegnante incapace è meglio che cambi scuola allo scadere del contratto triennale.

Non importa quando sarà accaduto, davanti a chi e perché. Non importa se questo pianto avrà aperto uno spiraglio di comunicazione onesta con alunni che piangono tutti i giorni (il pianto, del resto, distingue i vivi dai morti).

Non importa se mi sarò smembrata per donar loro il privilegio di distinguere un accento da un apostrofo. Il codice non lo prevede. Ci sarà una diagnosi in più, stavolta per me: isterica, inadatta, incapace. Non so immaginarne di altre, ma ci sono e ci saranno.

La scuola di Renzi sposa l'ideologia del problem solving (altro sintagma di gran moda); la mia scuola è invece quella del ragionare per crearne, di problemi.

La scuola che faccio io è una scuola economicamente inutile, non produce nulla se non pensiero e amore. Desiderio di pensiero, urgenza di pensiero.

Nella mia scuola provo ogni giorno la vertigine dell'impossibile: impossibile educare, insegnare, salvare. Se riesco a creare dei buchi (ovvero croci di desiderio nel buco di sapere), nei cervelli dei ragazzi che sono come muri (come lo è il mio), posso dirmi contenta. Però, devo dirlo, esco contenta molto di rado.

L'impossibile. Una quasi maledizione. O una maladdizione: un calcolo fatto male, una cosa da raggiungere che si aggiunge a un'altra cosa da raggiungere, all'infinito, dove i conti non tornano più. O una maladdictione: una cattiva dipendenza.

Ricorda Antigone, la quale desidera seppellire il suo povero fratello lasciato in pasto ai cani e agli uccelli (e chi non vorrebbe), ma questo è, appunto, impossibile. Lo vieta Creonte, il capo di Stato:

"Tu vuoi l'impossibile", ammonisce la saggia sorella, Ismene.

Sappiamo che Antigone perderà. O meglio, perderà il sogno di una vita possibile: il matrimonio, i figli, la casa; tutto quanto è possibile a una giovane donna greca.

Eppure, a ben vedere, Antigone non perde (né vince) ma si perde. Per ritrovarsi.

Il sacrificio di sé è un sacrificio per sé: lei può essere ciò che è solo morendo. Non è altro che il destino dell'eroe, di ogni eroe ed eroina. Più che il destino in sé, interessa quindi ciò da cui esso è sostenuto e magneticamente attratto, ciò che l'eroe o l'eroina scopre, o ricerca, o afferma, o crede di affermare, nel sacrificio della sua persona.

L'eroe - o l'eroina- non sa ciò che è. Sa soltanto ciò che fa. Egli - ella- è ciò che fa.

Le diverse facce della sua identità si rivelano solo allo spettatore, al lettore, allo studioso. Identità inevitabilmente molteplici, metamorfiche: Antigone la sovversiva; Antigone custode della legge degli dèi; Antigone mostruosa labdacide (è nata da un incesto); Antigone che dice no; Antigone sorella della sorellanza. Antigone monolite del desiderio assoluto. E così ancora.

Mi piace pensare al mito come a un marchio impresso su di noi, come fossimo già stati, noi stessi, il mito, con tutte le identità che ogni eroe ed eroina nei secoli ha portato con sé. E come se ogni volta dovessimo riscriverlo, in un essere che coincida con il fare senza sapere.

Ma il nostro fare non ci permettere di essere radicalmente ciò che siamo (o siamo già stati), perché esserlo fino in fondo percorre la direzione di un impossibile (cosa siamo? E cosa siamo stati? E dov'è finita quell'ombra adorata che credevamo di abbracciare?) che si realizza solo nella morte.

Spesso, distrutta d'amore e d'impotenza davanti ai binari della stazione di Santa Marinella, penso ad Anna Karenina sul punto di morire, stordita d'amore e senza averci capito nulla. Una sorta di magnetismo mi fa avvicinare a lei sempre di più, sempre di più. Finché non mi cadono calde lacrime, a darmi conforto e sollievo. E insieme alla lacrime, talvolta, il riso.

Noi, quanti (o quante) non possiamo fare a meno di desiderare l'impossibile, diversamente dagli eroi e dalle eroine (e dai pedagoghi, e dai capi di stato), dobbiamo a un certo punto sospenderci, trattenere il respiro sull'abisso. Lì, respirare, guardare quello che c'è sotto, sentirci per un istante onnipotenti, poi di nuovo impotenti e ridere come ridono gli ubriachi, piangere un eterno lutto, e poi, poter tornare indietro, riscrivere un'altra volta il mito.

*Francesca Giammaria è nata e cresciuta a L'Aquila. Vive a Roma dal 2000. Nel 2011 ha conseguito il dottorato di ricerca in Filologia Classica; esperito di come la filologia conduca al delitto (per dirla con Ionesco), oggi si dedica allegramente ad altro, tra cui l'italiano come lingua straniera, l'insegnamento nelle scuole pubbliche e il teatro laboratoriale

Articoli correlati (da tag)

Chiudi