Di Ilaria Carosi* - Ho deciso di cedere alla tentazione di parlarne anche io. Perché di Inside out, l’ultimo film di animazione della Pixar, parlano tutti e ovunque.
Persino al supermercato, dove attaccando un po’ di punti su una cartolina puoi portarti a casa Gioia, personaggio a scelta tra gli altri eroi della casa madre. E tra le emozioni solo lei… ok, va ammesso che probabilmente al supermercato non hanno ben interpretato il concetto chiave del film e nemmeno vagamente intuito che se avessero incluso, tra i peluches a disposizione, anche Tristezza, lei sì che sarebbe andata a ruba. Però questo discorso lo riprendiamo.
Dicevo, ne parlano tutti e ovunque. I giornalisti dei maggiori quotidiani, i blogger, se ne parla sui social network e alla radio. Farà parte delle operazioni di marketing, figurarsi se non è anche per questo!
Non mi colpisce che se ne parli di per sé, quanto piuttosto il fatto che molti di quelli che hanno scelto di parlarne si siano presi il disturbo di raccontarci anche i decilitri di lacrime versate, mentre lo guardavano.
Lacrime che per Matteo Bordone di Internazionale diventano uno dei motivi per cui il film va visto: “Ti alzi dopo i titoli di coda e hai le lacrime anche nel collo: ti sei fatto un pianto bello, gustoso, profondo e giusto”.
E io su questo mi fermo. Tra tutto quello che ho ascoltato e letto - financo sulle bacheche Facebook dei miei amici virtuali - su questo pianto bello gustoso profondo e giusto mi voglio fermare.
Mi chiedo: davvero si fa così fatica a piangere, nella vita di tutti i giorni, da sentirsi autorizzati a farlo proprio nel buio di una sala cinematografica, facendo attenzione, magari, a non singhiozzare rumorosamente?
La più retorica delle domande, per me.
Rispondo sì pensando anche a quanti pagano la mia professionalità e la riservatezza di uno studio di psicoterapia per lavorare, spesso, proprio su quell’emotività che il film così bene riesce a solleticare e a s-muovere.
Emozioni, da ex-movere, qualcosa che viene da dentro e si muove verso l’esterno (come ben richiamato nel titolo); tecnicamente, una reazione psico-fisiologica con chiara funzione relazionale-comunicativa, se pensiamo ad esse come segnale per gli altri, con funzione propriocettiva di autoconsapevolezza, se le pensiamo rispetto al nostro Sé.
A voler essere riduttivi, certo. Perché potremmo parlarne ore, non dimenticando di citare, almeno, il loro essere adattive, protettive, economiche – cioè utili a non disperdere le energie interne, reagendo agli stimoli esterni in modo aspecifico ed indifferenziato.
Lo so, la questione si complica. Ma proprio in questo risiede la genialità di un film che ha reso in termini semplici e per immagini molto di quanto realmente avviene all’interno del nostro cervello.
Il tutto, grazie alla consulenza di due professori di psicologia della California University, Dacher Keltner e Paul Ekman.
Tornando al nostro collo bagnato, mi piacerebbe ragionare su quanto gravoso possa diventare per ciascuno il tenersi dentro le famose lacrime, più raramente la gioia, e ancora la rabbia, il disgusto, la paura, e le mille sfumature emotive che il film d’animazione non prende in considerazione, perché ad una semplificazione si doveva pur procedere.
Su quanto gravoso possa diventare non essere in grado di riconoscere ed esprimere alcune tra le emozioni principali, come la tristezza, diventando preda di una gioia esasperata, oppure di paura, rabbia e disgusto.
Proprio quello che succede, nel film, quando Gioia e Tristezza restano confinate in un’area del cervello che rende loro inaccessibile la plancia di comando: la giovane protagonista, Riley, a quel punto, smette sia di sorridere che di piangere e più lei non ci riesce e più lo spettatore accumula angoscia.
Semplicemente, quelle due emozioni non fanno più parte della sua dotazione e a stimoli diversi può reagire soltanto mettendo in campo una delle altre tre.
E Riley è fortunata perché talvolta, nelle nostre vite, ad essere congelate sono più di due sfumature emotive.
Pensiamo, ad esempio, a tutti quei quadri psicopatologici che fanno di un'unica emozione dominante la risposta indifferenziata agli stimoli esterni (la paura nelle fobie, la tristezza nella depressione, il disgusto nei disturbi del comportamento alimentare, volendo ipersemplificare).
Pensiamo ai limiti che angosciano chi diventi vittima di un blocco emotivo da cui consegua una condizione di stallo, spesso una vera e propria paralisi evolutiva, oltre che una condizione di più o meno marcata patologia.
Se si ha paura di uscire di casa, di non essere all’altezza di una situazione, del giudizio degli altri, se ci si vede brutti dentro o fuori, ci si chiuderà in una dimensione protettiva -casalinga, sociale, relazionale, corporea - e questo proteggerà, il termine è volutamente paradossale, dall’affrontare i naturali compiti di sviluppo, per esempio frequentare l’università e riuscire a laurearsi, trovare e mantenere un lavoro, avere una relazione di coppia stabile, mettere al mondo un figlio.
Perché, come insegnava lo stesso Freud, i sintomi hanno dei “vantaggi” secondari che fanno da contraltare alla sofferenza che comportano; vantaggi che trovano, talvolta, le loro ragioni profonde nel significato relazionale che assumono, volendo dirlo in termini sistemici.
In tal senso, non sono solo quello che grava sul singolo individuo, piuttosto qualcosa che protegge un intero sistema - in genere tutta la famiglia - e aiuta nel mantenimento di un equilibrio omeostatico che non può/non vuole essere modificato.
Un “dono d’amore” - direbbe la psicoanalista Lorna Smith Benjamin - che il membro patologico fa a tutti gli altri, in una pretesa di economicità, il mantenimento dello status quo, che stavolta diventa dis-funzionale e dis-adattiva, perché non consente al sistema di evolvere, di rispondere ai cambiamenti in cui si incorre semplicemente vivendo.
Quando Riley e la sua famiglia si trasferiscono dal Minnesota alla California, la rabbia per quanto è stato perso e la paura ed il disgusto che si provano di fronte alle novità non le permettono di viversi a pieno anche gli aspetti positivi che la situazione potrebbe comportare.
La stessa cosa accade a tutti noi ogni qualvolta dobbiamo fare i conti con perdite e nuove acquisizioni, personali e familiari, oppure di contesto, evenienza che noi aquilani conosciamo, peraltro, meglio di altri.
I cambiamenti e le perdite rendono anche tristi ma per questa emozione nel cervello di Riley - e in quello di molti di noi - non c’è spazio.
È esattamente il tipo di messaggio che ci rimandano continuamente media e società del consumismo, saturate dall’immagine dell’uomo vincente e felice ad ogni costo. Ad ogni costo.
A costo di pillole che ci aiutino a combattere la stanchezza e la fatica, come pure l’insonnia, l’apatia cronica, la mancanza di desiderio, il troppo o il troppo poco appetito, l’ansia, la tristezza e la depressione, ovviamente.
E non parlo, sia ben inteso, delle psicopatologie conclamate che rendono imprescindibile una compensazione farmacologica, parlo dell’uomo medio. Di uno di noi.
Penso che ci sarebbe davvero da piangere, per questo. Di fronte ad una società che richiede finzione o omissione di quanto si prova - tanto più se di tristezza stiamo parlando.
Toni emotivi che, piuttosto che venire naturalmente esternati, vanno repressi, oppure alterati da una pillola, contenuti oppure esaltati per essere socialmente accettabili.
Consola davvero, nella visione di Inside Out, che proprio gli americani, dopo aver dedicato parte del loro tempo e delle loro risorse a brevettare anche una pillola dell’oblio che consentisse di “spegnere” ricordi seriamente angosciosi per chi ne è vittima, abbiano deciso di affidare a Tristezza le sorti di un mondo che sembrerebbe andare da un’altra parte.
Capendo, verrebbe da dire finalmente, che non si può essere solo felici, così come non si può essere solo arrabbiati o impauriti o disgustati. O tristi, certo.
Non soltanto e non in modo cronico, per lo meno. Di emozioni possiamo e dobbiamo vivere - e non solo di esse, va da sé, anche se in questo contesto stiamo trascurando il piano della razionalità.
Inside Out commuove perché rammenta a ciascuno di noi che le emozioni fondano i nostri ricordi di base e incidono sullo sviluppo della nostra personalità ma anche che sono esse a dare colore e sfumature alla nostra esistenza, condizionando blocchi ed evoluzioni individuali, duali, familiari e collettive.
Quindi, dovremmo poter disporre tutti di una tavolozza emotiva ricca e differenziata da mettere in campo nell’arco della nostra vita, nell’infanzia, nell’adolescenza, nella giovinezza, nell’età adulta e nella terza età.
E, soprattutto, in momenti specifici: nascite, matrimoni o nuovi legami, separazioni e divorzi, trasferimenti, perdita del lavoro o pensionamenti, aborti, malattie croniche, lutti.
Dovremmo poterla avere in dotazione fin dalla nascita, la tavolozza, affinarla ed arricchirla anche grazie alle figure di accudimento che, interagendo con il neonato, fungano da modello e da attivatori di quei neuroni specchio fondamentali per un corretto sviluppo psico-emotivo del Sé.
E quando gli eventi della vita non siano così gentili o mettano a dura prova la nostra personalissima consolle emozionale, dovremmo poter essere messi in condizione di riconoscere e riattivare anche le emozioni congelate o diventate inaccessibili.
Non vergognandoci di ricorrere all’aiuto di un ascolto specializzato o di una psicoterapia, quando serva.
L’alternativa legittima resterebbe, ancora, relegare e regalare le nostre giuste e gustose lacrime al colletto della camicia, nel buio di un cinema.
* Psicologa e Psicoterapeuta, specializzata in terapia familiare e sistemico-relazionale. Esperta di migrazioni.