Grande successo di pubblico per The Dubliners di James Joyce, la nuova produzione del Teatro Stabile d'Abruzzo (Tsa) e Bis Tremila. Lo spettacolo teatrale del regista di fama nazionale, Giancarlo Sepe, ha debuttato ieri sera sul palco del teatro "Parco delle arti", nella frazione di Monticchio. Un appuntamento atteso con ansia nella stagione teatrale aquilana tanto da guadagnarsi ben quattro repliche.
Tra la nebbia irlandese, Sepe mette in scena l'essenza e l'atmosfera che regna nelle famose 15 epifanie di James Joyce. Al contrario di quanto ci si possa aspettare, non si tratta di una trasposizione fedele al libro nella sua integrità e nei dialoghi. La rappresentazione procede per immagini e metafore in cui, difficilmente, si riesce a ravvisare qualche traccia di una storia. Gioca molto il simbolismo in una scenografia straordinaria e funzionale: le valigie, il letto di fiori recisi, l'edera che li trattiene al tavolo, le sagome di dublinesi sullo sfondo assumono di volta in volta significati diversi, in base al momento narrativo che si vuole suggerire. Protagonista indiscussa è una Dublino ai primi del Novecento. Una città nebbiosa e provinciale, in cui i sogni e le speranze dei suoi cittadini sono destinati, proprio come nei racconti di Joyce, al fallimento. Come spiega il Piccolo Chandler nel racconto Una piccola nube: "Era vano lottare contro la sorte, questo era il fardello di saggezza che i secoli gli avevano tramandato".
Sullo sfondo di una storia di cui si conosce già l'epilogo, i personaggi lottano con furia e passione contro il proprio destino. Come ne L'angelo sterminatore, la pellicola di Luis Buñuel, non riescono, per quanto vogliano, ad abbandonare Dublino, a fuggire da una vita che non gli appartiene. A trattenerli non sono barriere ma è la vita stessa che, intrecciata con i fili del destino, li tiene fermi, mentre il resto del mondo va avanti: il luccichio delle vite altrui, in altre parti del mondo, si contrappone all'opaco grigiore della loro monotona e insulsa vita. Partire o restare: una dilemma che facilmente valica i confini dell'Irlanda e del secolo scorso, nella quale possiamo rintracciare i sentimenti e le aspirazioni del nostro tempo.
Brillante l'interpretazione di Pino Tufillaro (fondatore con Sepe del Teatro La Comunità): una borghese e arrogante Inghilterra che apre lo spettacolo, e resta sul suo trono per tutta la sua durata, si mostra indifferente e sbeffeggiante nei confronti delle disgrazie dei poveri dublinesi. Disgrazie che gli altri attori - Giulia Adami, Lucia Bianchi, Paolo Camilli, Federico Citracca, Manuel D'Amario, Giorgia Filanti, Federica Fruscella, Pietro Pace, Caterina Pontrandolfo e Guido Targetti - mettono in scena in un ottimo esercizio di stile: i corpi, i visi grigi, i movimenti fanno da padrone sul palcoscenico. Tradizione e religione si confondono: balli convulsi, e quasi tribali, si accendono sulle note di incalzanti musiche irlandesi e si spengono subito dopo in lenti e strazianti canti, in un impatto visivo ed uditivo di grande effetto. Un'ottima trasposizione nello spazio di quella che Carmelo Bene definiva essere l'elettricità del linguaggio di Joyce.
Tuttavia a volte, le metafore appaiono poco chiare: il loro simbolismo è così acceso o solo accennato che risulta difficile per lo spettatore entrare nel racconto. Pochi i dialoghi, in inglese, che rimandano soprattutto all'ultimo dei racconti di Joyce, "I morti". L'impressione è che si sia voluto esprimere sul palcoscenico il "non detto" del libro: quel sapore di amarezza che resta in bocca alla fine di ogni racconto. Quella che inizialmente è una malinconica patina che si insinua tra la gente di Dublino ed i loro sogni, si infittisce fino a diventare - come la vede Gabriel Conroy alla fine del libro - neve che ricopre tutta l'Irlanda e che cade silenziosa su tutto l'universo. Alla fine dei conti, i vivi e i morti sono uniti, sotto il peso di quella coltre, il peso della vita che a fatica riescono a sopportare.
Ne abbiamo parlato con il regista Giancarlo Sepe. "Joyce - ha detto a NewsTown - si è voluto allontanare ma l'attaccamento alla sua terra è rimasto in tutti i suoi romanzi. L'ha in qualche modo rifiutata perché è una terra che gli impediva di esprimersi per il suo bigottismo, però è rimasto sempre molto legato. C'è quindi è in lui questo struggimento per una terra a lui cara, che però non poteva vivere come avrebbe voluto. C'è nei dublinesi, dunque, questo attaccamento viscerale, quasi mediterraneo alla loro terra".
"E' stato un lavoro che si è protratto per molti mesi - ha spiegato ancora - per cui sono rimasti solo dei brandelli di storia, più che una narrazione lineare. Ci sono varie storie che si intersecano, che si rincorrono e si alternano. Non c'è stata mai la volontà di raccontare uno spettacolo lineare con una storia che cominciasse e che finisse, anche perché i racconti sono 15 e non lo avrei mai potuto fare. Ho fatto invece uno spettacolo sull'umanità irlandese, che mi sembra ci sia nei dublinesi come sostanza. Il percorso è stato lungo e articolato ma ho trovato una grande disponibilità negli attori".
Il regista ha spiegato infine la scelta dell'inglese: "Volevo che anche lo spettacolo avesse il suono della lingua. Era uno spettacolo troppo etnico per farli parlare in italiano: sarebbe stato un tradimento e una cosa un po' avulsa da un contesto così accorato, così legato al fonema".
Lo spettacolo sarà in scena al teatro "Parco delle arti", nella frazione di Monticchio, giovedì 26 novembre (ore 17:30 e ore 21:00), venerdì 27 novembre (ore 17:00)