Domenica, 16 Aprile 2017 21:13

Il mistero di Federico Caffè: trent'anni fa, la scomparsa dell'economista abruzzese

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Trent'anni fa scompariva Federico Caffè, uno dei più illustri economisti italiani, tra i principali esponenti, nel nostro paese, della scuola keynesiana.

Nato a Pescara nel 1910, Caffè scomparve misteriosamente la notte tra il 14 e il 15 aprile 1987 dalla sua casa di via Cadlolo, una strada del quartiere Monte Mario, a Roma, dove viveva insieme al fratello Alfonso. Alle prime ore dell'alba uscì e non fece più ritorno. Di lui non si saprà più nulla.

Da allora amici, colleghi, studiosi e altre persone che a vario titolo si sono interessate al suo caso, hanno formulato varie ipotesi sulla sua sparizione, dal suicidio al rapimento ritiro volontario in un convento, senza mai riuscire a chiarire una volta per tutte l'enigma.

Lo scorso anno, un allievo e grande amico di Caffè, Bruno Amoroso, rivelò, in un libro, di avere avuto contatti con lui anche dopo che se ne persero le tracce, riaccreditando così la teoria del ritiro a vita monastica. Anche se, più o meno contemporaneamente al tempo in cui scriveva queste cose, Amoroso si lasciò scappare, a una cronista del Corriere della sera, questa frase sibillina: "Non posso dire cosa è successo a Federico Caffè, questo reato non è ancora prescritto", alludendo quasi a una fine violenta (l'unico reato che non si prescrive è l'omicidio). Purtroppo non sapremo mai quale fosse la verità, visto che nel frattempo Amoroso, che viveva in Danimarca, dove insegnava, è deceduto.

Il giallo e il perdurante mistero che circondano la scomparsa di Federico Caffè hanno sicuramente contribuito a far sì che la sua figura continuasse a esercitare, in questi anni, fascino e attrazione, non solo tra gli addetti ai lavori. Impossibile non accostare la sua figura a quella del grande fisico siciliano Ettore Majorana, scomparso anch'egli nel nulla il 27 marzo 1938.

Ma se oggi ricordiamo Caffè è soprattutto per la qualità e l'attualità del suo insegnamento, per dirla con Ermanno Rea, autore del bellissimo libro L'ultima lezione. La solitudine di Federico Caffè scomparso e mai più ritrovato.

Caffè fu uno dei più grandi economisti italiani del Novecento, tra i principali diffusori, nel nostro paese, della dottrina keynesiana, e si occupò tanto di politiche economiche e sociali quanto di welfare state. Consulente del ministro della Ricostruzione Meuccio Ruini durante il governo Parri, Caffè lavorò inizialmente in Banca d'Italia per poi passare a insegnare Politica economica e finanziaria alle università di Messina e Bologna e, a partire dal 1959, alla Sapienza di Roma.

Caffè consacrò tutta la sua vita alla ricerca e all'insegnamento universitario. Negli anni in cui fu professore coltivò un rapporto speciale con i suoi studenti, tra i quali ci furono studiosi diventati successivamente esimi economisti (uno su tutti, l'attuale governatore della Bce Mario Draghi).

Quella di Caffè, però, non fu mai una vera e propria "scuola", termine verso il quale lui, intellettuale tanto rigoroso quanto antidogmatico, nutriva una vera avversione. Il suo fu più un "laboratorio teorico", da cui uscirono uomini capaci di pensare l'economia come sistema razionale in grado di garantire anche i più deboli. Da keynesiano convinto, Caffè per tutta la vita denunciò la "non politica dell'occupazione", anticipando gli sviluppi della crisi che stiamo vivendo e presagendo i ritardi della sinistra e del sindacato.

Per ricordare la figura di questo grande economista e intellettuale, NewsTown ha intervistato Nicola Acocella, che di Caffè fu allievo (si laureò con lui) prendendone anche il posto presso la cattedra di Politica economica e finanziaria all'univertsità La Sapienza di Roma.

Professor Acocella, qual è l'attualità del pensiero di Caffè?

Il ricordo di Caffè è ancora vivo, sul piano scientifico, per ragioni connesse con la sua attività scientifica. La disciplina della quale si è occupato, la politica economica e i suoi due pilastri fondamentali – l’economia del benessere e la ‘teoria’ della politica economica – ai quali egli ha contribuito, era stata soggetta a critiche distruttive fino a pochi anni fa. Lavori di Amartya Sen hanno dimostrato la validità dell’impianto dell’economia del benessere per esprimere in modo democratico le scelte collettive. Lavori riconducibili a componenti della sua ‘scuola’ hanno riabilitato la ‘teoria’ della politica economica, dopo le critiche degli anni 1970.

Caffè fu il relatore della sua tesi di laurea e fu proprio lei a prenderne il posto nella cattedra di Politica economica all'Università La Sapienza. Come è stato il suo rapporto, professionale e umano, con Caffè? Che ricordo ne serba?

Il rapporto fu certamente fecondo, anche se in alcuni momenti fu sofferto, devo dire proprio in relazione ad un episodio del quale parlerò nel punto successivo.

Che anni furono quelli vissuti a contatto con Caffè? Si può parlare di una scuola di economisti da lui influenzata e nata sotto la sua egida?

La scuola di Caffè non esiste. Ci sono tanti allievi di Caffè, ognuno con la sua personalità, un proprio bagaglio culturale, una particolare visione del mondo. Egli si vantava di questo e tutti i suoi allievi lo riconoscono. Per far comprendere il suo atteggiamento nei confronti della sua ‘non scuola’, cito un episodio personale. Per ragioni di lavoro, mi son potuto recare all’estero per approfondire il mio bagaglio di conoscenze soltanto più tardi di altri allievi di Caffè. Sentivo particolarmente il bisogno di un tale approfondimento e allora una volta gli chiesi di tenere dei seminari periodici a ciò rivolti, come accadeva per qualche suo collega. Egli mi rispose piccato, dicendo: ‘Ma, Acocella, non vede che in certi casi gli allievi di altri sembrano fatti con gli stampini?’

La scomparsa di Caffè rimane ancora un mistero, un giallo irrisolto. Tra le tante ipotesi formulate in questi anni, lei personalmente cosa pensa, che idea si è fatto? Rea ha scritto che Caffè prese molto male il pensionamento, che lo allontanò da ciò che aveva di più caro, l'insegnamento e il rapporto quotidiano con i suoi studenti, e rimase fortemente prostrato per la morte di Ezio Tarantelli per mano delle Brigate Rosse. E' d'accordo nell'individuare in questi due eventi due momenti di svolta che potrebbero aver aggravato una crisi interiore che il professore già covava dentro di sé da qualche tempo?

Ciò di cui soffrì sono due cose: anzitutto gli episodi dolorosi della scomparsa di suoi allievi, quello di Ezio Tarantelli ricordato nella domanda, e di un altro caro allievo, Franco Franciosi, nonché di Fausto Vicarelli, che non era suo allievo, ma al quale era molto legato, e di altre scomparse nell’ambito familiare. La seconda cosa è l’allontanamento dall’insegnamento, che era avvenuto circa 3 anni prima della sua scomparsa. Il colloquio con gli studenti era il pane del quale si era nutrito per tanti anni e altre relazioni, quelle familiari e con gli ex allievi, assumevano tutta una luce sbiadita, dopo quell’allontanamento.

Caffè era un keynesiano, un riformista, vicino alla sinistra ma per niente organico a partiti, sindacati o altre organizzazioni. Come avrebbe giudicato la società e la politica italiana di oggi? E come si sarebbe posto nei confronti della globalizzazione, della finanziarizzazione dell'economia, della perdita di dignità del lavoro? Cosa avrebbe pensato di questa Unione Europea, dell'euro, dell'austerity?

Tutto esatto sulle idee politiche di Caffè. Quanto ad un suo giudizio sull’attualità politica, va premesso che ogni congettura può essere opinabile. Tuttavia, penso che sarebbe stato molto critico rispetto alla società e alla politica attuale, soprattutto per la difficoltà di individuare prospettive positive. Avrebbe potuto fornire utili indicazioni, pur considerando che egli era ben consapevole, che i suggerimenti possono rimanere prediche inutili per molte ragioni. Quanto agli aspetti economici, giudicava negativa la disoccupazione, non soltanto per i risvolti strettamente economici, ma in quanto causa di perdita di dignità umana; era assolutamente critico nei confronti delle rendite finanziarie, degli aspetti predatori dello sviluppo del settore finanziario e dell’azione degli ‘incappucciati’ della finanza; era scettico di una globalizzazione spinta e senza regole, in particolare proprio con riferimento ai movimenti speculativi di capitale, e giudicò negativamente l’affievolimento di quelle stabilite all’origine del Fondo Monetario Internazionale, con l’abile intervento di Keynes, che ben conosceva i ‘misfatti’ dei mercati finanziari. Anche sulla costruzione europea era relativamente cauto, pur non avendo assistito all’epilogo riduttivo e per alcuni versi nocivo rappresentato dalla costruzione stessa dell’ Unione monetaria europea, dalla politica dell’austerity e dal dominio della Germania.

Ultima modifica il Lunedì, 17 Aprile 2017 22:25

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