Lunedì, 03 Settembre 2018 15:02

La ricchezza va accumulandosi nei grandi centri urbani, quale futuro per L'Aquila e le aree interne?

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"Immaginatevi un mondo con poche e piccolissime isole di prosperità, immerse in un mare di povertà e stagnazione. Ci stiamo dirigendo lì".

A dirlo è l’economista Joan Rosés, professore alla London School of Economics, che insieme a Nikolaus Wolf, capo economico alla Humboldt University di Berlino, ha creato un algoritmo in grado di definire dove si sta accumulando la ricchezza; nei mesi scorsi è stato pubblicato un abstract assai interessante, “The return of regional inequality: Europe from 1900 to today”: ebbene, viene spiegato come la ricchezza si stia concentrando in alcune aree, per lo più urbane, creando il vuoto intorno. Si tratta di un passo ulteriore rispetto al lavoro di Thomas Piketty che, già nel 2013, in “Il Capitale nel XXI secolo”, mostrava come i ricchi sarebbero diventati sempre più ricchi perché i rendimenti del capitale accumulato dalle persone abbienti sono e saranno sempre maggiori rispetto alla crescita dell’economia reale, favorendo quindi la disuguaglianza.

Rosés e Wolf hanno dimostrato che il periodo di diffusione della ricchezza si è concluso a metà degli anni Ottanta, in concomitanza con la chiusura dell’epoca fordista e con la fine delle grandi fabbriche, per fare spazio all’economia della conoscenza e alla globalizzazione; un nuovo modello economico che sta aumentando le disuguaglianze in modo vertiginoso.

E l’Italia è fra i paesi più colpiti da questo fenomeno di impoverimento diffuso. Tant’è vero che non è più possibile parlare di un Nord ricco e di un Sud povero, ma succede che i comuni più indigenti si trovino non troppo lontano dalla più ricca città italiana, Milano. Stando alle dichiarazioni dei redditi 2017,  per dare un dato, si evince come fra i dieci comuni con la media reddituale più bassa d’Italia ci siano i due municipi comaschi Cavargna e Val Rezzo, la trentina Dambel e ben quattro comuni della provincia di Verbano Cusio Ossola, che separa il Piemonte dalla Svizzera: Cavaglio-Spoccia, Gurro, Falmenta e Cursolo-Orasso. I quattro comuni si trovano tutti nell’impervia e isolata val Cannobina dove, fino a qualche decennio fa, si viveva di coltivazione e allevamento. Poi la gente del posto è migrata in Ticino, dove l’industria prospera e lassù sono rimaste non più di 700 persone, sprovviste di tutto. Non c’è una scuola, un asilo nido, un pronto soccorso, una banca, un supermercato e le strade, soggette a frane, vengono chiuse di frequente.

Vi ricorda qualcosa? Accade lo stesso nelle aree interne dell'Appennino, nei comuni abruzzesi definiti "di montagna", 249 su 305 con meno di 5mila abitanti, l'81.64%, che 'occupano' il 76.4% del territorio ma dove abita poco meno del 26% della popolazione. "Il boom economico aveva portato all’Italia una fase di espansione e diffusione del benessere nelle province, perché è lì che gli imprenditori hanno aperto gli stabilimenti, facendo proliferare i distretti produttivi industriali", scrive Rosés; "oggi, invece, l’economia della conoscenza tende ad accentrare i migliori capitali umani nella città. Quest’ultima ha bisogno di poche persone molto istruite e ciò sta creando poli di estrema ricchezza e benessere, lasciando tutti gli altri al palo".

Questo fenomeno - diffuso in tutto il mondo, sia chiaro - era stato individuato già all’inizio del Duemila dall’economista polacca e commissario europeo alle politiche regionali Danuta Hubner, che insieme a Fabrizio Barca, ex ministro del governo Monti, si era resa conto che la globalizzazione e l’abbattimento delle barriere intraeuropee stavano aprendo una profonda frattura, portatrice di disuguaglianza. Hubner e Barca avevano previsto il massiccio spostamento delle persone verso le aree più ricche e, per invertire la rotta, hanno cercato di attivare un sistema di politiche di coesione sociale per contrastare il fenomeno. Così è nata la strategia per le Aree interne (Snai), di cui ci siamo occupati diffusamente su NewsTown. 

In questo scenario, con le aree interne che si spopolano e vengono marginalizzate dal sistema economico imperante, qual è il destino dell'Abruzzo e, in particolare, della città capoluogo, L'Aquila? Altrove, il problema è stato posto con forza: non è affatto un caso che Pescara, Montesilvano e Spoltore vadano verso l'unione dei comuni, per creare, così, una metropoli di 200mila abitanti che si candida ad essere il motore dell'economia, del turismo e della crescita imprenditoriale lungo la costa adriatica. Nel capoluogo di Regione, invece, la ricostruzione ha anestetizzato il dibattito. 

In questi anni, l'ingente fiume di denaro che è 'piovuto' su L'Aquila, e sul cratere più in generale, ha reso meno evidenti i segni della crisi, cancellando dall'agenda il tema del rilancio economico di un territorio - se non per alcune 'scelte conservative' - che, già prima del sisma, iniziava a soffrire di una mancata vocazione di sviluppo. L'Aquila e il circondario, d'altra parte, hanno vissuto di impiego pubblico e di fabbriche che, come sottolineato dall'economista Rosés, venivano aperte in provincia facendo proliferare i distretti produttivi industriali. Cosa è rimasto dei distretti, possiamo rendercene conto ogni giorno. Se si aggiunge la stretta sull'impiego pubblico, è evidente come il tessuto economico sia completamente da reinventare. Anche perché, la ricostruzione si avvia alla fase conclusiva, sebbene ci vorranno ancora anni, e i finanziamenti, di anno in anno, vanno assottigliandosi. 

Torniamo alle dichiarazioni dei redditi; ne scrivevamo nei giorni scorsi, L'Aquila è il capoluogo di provincia italiano che ha visto crescere più sensibilmente il reddito medio pro capite dal 2008 al 2016. Sappiamo anche, però, che in città vivono 5mila nuovi poveri: significa che le 'ricchezze' della ricostruzione finiscono nei conti bancari di pochi, creando una peculiare forma di disuguaglianza tra chi ha beneficiato dei processi degli ultimi anni e chi li ha visti semplicemente compiersi. La grande maggioranza dei cittadini. 

Una disuguaglianza che dovrebbe preoccupare moltissimo: a fine ricostruzione, L'Aquila sarà una città più povera e, al momento, non è chiaro quale sia la strategia per ritessere il tessuto econonico sfilacciato dagli anni del post terremoto. E' di questo che si dovrebbe discutere, è su questo che bisognerebbe interrogarsi: d'altra parte, e ci ritroviamo al punto di partenza, la ricchezza va accumulandosi nelle grandi aree urbane del paese, lo abbiamo visto, e in questo senso la nostra città potrebbe restare 'tagliata fuori', stretta tra Roma e la Nuova Pescara, mortificata, magari, come semplice luogo di svago e nostalgia. 

E' necessario intervenire subito. Certo si può investire sul turismo, che non muove, però, più di qualche decimale di Pil, si può puntare sull'alta formazione e la ricerca, come sentiamo ripetere da anni, ma vanno fatti passi avanti decisi in questa direzione: è la stessa città, le sue funzioni, i suoi servizi che dovrebbero essere orientati verso la definizione di una vocazione credibile.

Non sta accadendo. 

Ultima modifica il Martedì, 04 Settembre 2018 21:35

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