C'è anche la Banca Popolare dell'Emilia Romagna nella lista dei dieci istituti bancari interessati dalla riforma delle Banche popolari varata ieri dal consiglio dei ministri.
Una riforma che il premier Renzi ha già definito di "importanza storica" e che è stata salutata positivamente anche dal governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco, che ha parlato di un "segnale nescessario" atteso da tempo.
La novità introdotta dal Governo, contenuta nell'articolo 1 del decreto legge su banche e investimenti, di fatto abolisce il voto capitario nelle popolari con patrimonio superiore a 8 miliardi di euro. Queste ultime avranno un anno e mezzo di tempo per trasformarsi in società per azioni.
L'elenco dei dieci istituti interessati dalla trasformazione - la più importante per il settore bancario dagli anni Novanta, ossia dai tempi della riforma Amato - comprende, oltre a Bper, anche Banco Popolare, Ubi Banca, Popolare di Milano, Popolare di Vicenza, Veneto Banca e Popolare di Sondrio (tra gli istituti quotati in borsa) e Credito Valtellinese, Popolare di Bari e Popolar edell'Etruria e del Lazio (tra quelli non quotati). Non toccate, per il momento, né le banche di credito cooperativo né le popolari di minori dimensioni.
Come spiega il sito lavoce.info, si tratta di una decisione che "può avere conseguenze rilevanti per la governance di una parte importante delle banche italiane, migliorare il governo societario e accrescere il grado di concorrenza nel mercato bancario".
La riforma, come detto, abolisce il voto capitario, ovvero quella regola "per la quale il diritto di voto degli azionisti (soci) è indipendente dal numero di azioni (quote) detenute".
In base a questo principio statutario, scrive Luigi Guiso, l'autore dell'articolo, "ogni socio ha diritto a un voto in assemblea, anche se possiede la metà del capitale. Quale è il problema di un simile assetto di governo? Principalmente la difficoltà del passaggio di mano del controllo. In una società per azioni, è sufficiente comprare i titoli sul mercato per scalzare un gruppo di controllo. L’aspettativa è che chi è disposto a pagare in proprio per comprare azioni per assumere il controllo ha un fondato motivo per ritenere di poter gestire la società meglio di quanto non faccia il management in carica, sorretto da chi oggi esercita il controllo. Il voto per azione garantisce che questo passaggio possa avvenire, e quindi che si possa conseguire il guadagno di efficienza che un management superiore comporta. Nelle banche popolari (e in genere nelle società cooperative) il cambio di controllo richiede che qualcuno metta d’accordo la metà più uno dei soci per scalzare la gestione corrente, se questa funziona male. Non è difficile capire i limiti del meccanismo. Se un socio o un gruppo di soci sono insoddisfatti della gestione del gruppo dirigente, per estrometterlo devono prima riuscire a convincere della loro analisi la maggioranza dei soci e poi a portarne in assemblea un numero sufficiente. È ragionevole assumere che questa capacità di mobilizzazione e di coordinamento esista se si tratta di piccole cooperative, dove bastano poche telefonate per spiegare le cose e convincere altri soci a partecipare a una azione collettiva contro la dirigenza in carica. Ma per cooperative con migliaia e migliaia di soci, come accade ad esempio nelle grosse banche popolari (la Popolare dell’Emilia ne ha 90mila, per dire), chi mai tra i singoli soci sarà disposto a spendere il proprio tempo (e i propri denari) per radunare altri soci nella speranza di raggiungere una maggioranza che consenta di estromettere il management? Il beneficio, in termini di maggior efficienza della banca, va a tutti i soci, mentre il costo di coordinazione del dissenso pesa solo sul coordinatore. Inoltre, la capacità di mobilizzazione del gruppo che esercita il controllo è molto maggiore di quella di qualunque socio, rendendo arduo qualsiasi piano per estromettere il vertice".