“Ero salita con la mia bambina sul tetto di casa, quando ho sentito prima il rombo di un aereo e poi un'esplosione seguita da un boato spaventoso”.
A parlare è Darine Tohme, ingegnera e cooperante libanese che ha vissuto all’Aquila per 15 anni e che martedì scorso era a Beirut quando è avvenuta la terrificante esplosione che ha distrutto il porto, devastando interi quartieri.
Nata in Libano nel 1983, dopo le scuole superiori Darine arrivò in l’Italia, all’Aquila, insieme al fratello gemello Jihad, per frequentare l’università. Era il 2001.
Laureatasi in Ingegneria per l’Ambiente e il Territorio, ha lavorato anche alla ricostruzione post-terremoto in un consorzio del Diceaa, il dipartimento di Ingegneria civile e edile dell’Università dell’Aquila.
Nel 2015 è tornata a Beirut, dopo aver accettato la proposta di lavoro di un’organizzazione umanitaria che si occupa della gestione di progetti di sviluppo per il territorio.
“Molto probabilmente collaboreremo nell’emergenza dalla settimana prossima” racconta a NewsTown.
A Beirut Darine vive con il marito libanese e la figlia di tre mesi.
Darine, puoi raccontarci quello che hai vissuto? Dove ti trovavi quando c’è stata l’esplosione?
Martedi 4 agosto era il mio secondo giorno di lavoro dopo il rientro dalla maternità, in Libano siamo ancora in smart working per l’aumento di casi Covid-19. Avevo staccato verso le 17:40 e avevo deciso di portare mia figlia Gloria di 3 mesi sul rooftop di casa per un bagnetto in piscina con la nonna materna. Eravamo seduti a prenderci un caffè quando si è sentito il rombo di un areo, che era chiaramente un aereo militare - in Libano distinguiamo bene il rumore di un aereo civile sal rombo di un aereo militare, soprattutto chi ha vissuto qualche pezzo di guerra - seguìto da una scossa di terremoto che mi ha ricordato le scosse di magnitudo superiore a 3 che sentivamo all’Aquila. Dopo una frazione di secondo, c’è stato un boato spaventoso, che ci ha fatto saltare sulla sedia, anche se, abitando a circa 15 km dalla capitale, l’impatto dell’esplosione per noi non è stato tremendo come per chi si trovava a Beirut.
Qui in Italia, attraverso i notiziari internazionali, arrivano immagini drammatiche: il porto completamente distrutto, gli edifici sventrati in un raggio di diversi chilometri, le strade ricoperte di vetri e detriti, gli ospedali al collasso. E’ un disastro con pochi precedenti anche per una città come Beirut, che ha visto e vissuto guerre e attentati. Quanti morti e sfollati ci sono? Quali quartieri sono stati colpiti maggiormente?
Si parla di almeno 153 morti, 5000 feriti oltre ai 400 000 sfollati le cui abitazioni hanno subito seri danni o crolli, per non parlare dei dispersi sotto le macerie e probabilmente nel mare. I quartieri più danneggiati sono il downtown di Beirut, dov’è localizzato il porto, Gemmayze e Mar Mikhael, i due quartieri più antichi di Beirut, dove si concentra la movida notturna, oltre alla zona residenziale di Achrafieh, dove sono crollati molti palazzi storici. Altre zone confinanti come Hamra, Bourj Hammoud, il borgo popolato dagli armeni, Dora, Furn el Chebbak, hanno subito danni minori. Molti ospedali nell’area di Beirut hanno subito gravissimi danni e sono stati evacuati e ciò rende ancora più drammatica una situazione già difficilissima, considerando l’alto numero di feriti in cerca di un letto di ospedale.
Alcuni giornali internazionali come il NY Times stanno ricostruendo la storia del deposito di nitrato di ammonio che si ritiene abbia causato l’enorme esplosione. E stanno emergendo le gravi colpe delle autorità locali, che sapevano della sua esistenza e della sua pericolosità ma che se ne disinteressarono, rimandando il suo smaltimento. Tu che idea ti sei fatta di quello che è accaduto?
Dopo aver letto e sentito molte versioni di quanto è successo, si analizzano i dettagli e si traggono conclusioni riguardo verità e bugie. Personalmente sono convinta che non sia stata una fatalità. La più plausibile delle versioni è che Israele abbia bombardato un deposito armi degli Hezbollah nel porto di Beirut, ignorando la presenza di quasi 3 mila tonnellate di nitrato di ammonio nel container accanto, ciò che i mass media non ci raccontano. E ciò, a mio parere, spiega il silenzio del capo di Hezbollah riguardo all’esplosione. Come tutti i libanesi, provo una grande rabbia per la negligenza, l’irresponsabilità delle autorità locali - agenzia doganale, autorità portuale, governo - che hanno ignorato ripetute segnalazioni dal 2014. Nessuno dei responsabili si è degnato di sporcarsi le scarpe il giorno dopo la catastrofe. Il Presidente della Repubblica si è fatto un giro al porto di Beirut, dove hanno vietato l’accesso al pubblico mentre teneva le mani in tasca ed è stato confrontato con il presidente Francese Emannuel Macron, che si è fatto un giro tra il popolo nei quartieri distrutti di Beirut.
Prima di questa tragedia, il Libano era un Paese già duramente provato dalla crisi economica e dall’emergenza Covid. Qual è la situazione economica e politica? Quali sono le cause di questa crisi?
E’ difficile capire le dinamiche politiche in Libano, ancor più complicato è spiegarle. I problemi sono iniziati a ottobre 2019, quando l’annuncio del governo di voler mettere una tassa sulle chiamate Whatsapp, e altre misure simili su tabacco e benzina, ha fatto esplodere le rivolte nel paese. Chiaramente si è ironizzato molto sul ‘Toccateci tutto ma non Whatsapp’ ma in realtà è stato solo un pretesto per far scendere il popolo libanese nelle piazze e far cadere il governo. Successivamente alle dimissioni del premier Saad El Hariri, un nuovo governo insediato da Hassan Diab ha fallito a prendere il controllo di un paese sull’orlo del collasso e a guadagnarsi la fiducia di un popolo arrabbiato contro una vecchia politica corrotta che continua a rovinare un intero paese. Il Libano ha un debito pubblico che ha raggiunto il 150% del prodotto interno lordo, la classe politica è composta da personaggi corrotti che da 30 anni governano il paese. I cittadini ricevono un salario medio inferiore ai 300 euro. Da marzo, la lira libanese si è drasticamente deprezzata rispetto al dollaro, un problema grave in un paese dove la moneta americana viene usata quotidianamente soprattutto nel settore del turismo e negli scambi commerciali, avendo il Libano una scarsissima produzione locale. Oggi i dollari sono sempre meno, infatti si trovano soltanto sul mercato nero, dove sono arrivati al valore di 10.000 lire libanesi, quando il tasso di cambio ufficiale resta 1.500. Ciò ha fatto perdere alla lira circa l’80% del suo valore nel giro di pochi mesi, con conseguenti fallimenti aziendali, aumento del tasso di disoccupazione, povertà e suicidi. Su questo sistema già in ginocchio, ha imptatato il lockdown dovuto al Covid-19.
Lavori per un'organizzazione non governativa globale che si occupa di aiuti umanitari e sviluppo. A preoccupare adesso è anche la crisi alimentare che può colpire il Paese, visto che il porto di Beirut era il principale punto di arrivo delle merci importate dal Libano. Cosa succederà ora secondo te? Credi che, paradossalmente, di fronte a questo dramma il Paese possa riuscire a riunirsi?
Le organizzazioni umanitarie adottano la politica di dare una spinta all’economia locale nei paesi in via di sviluppo, procurandosi tutte le merci di cui hanno bisogno da fornitori localizzati sul territorio nazionale. Bisogna quindi vedere l’impatto di questa strage sui mercanti/fornitori libanesi che già avevano difficoltà a comprare la merce da quando si è svalutata la lira libanese. Per ora si parla di attrezzare il porto di Tripoli (la seconda città del Libano per popolazione e importanza, ndc), abbastanza grande da accogliere l’attività commerciale. Qui si torna sempre a parlare però della fiducia che ha il popolo libanese in un governo corrotto non più credibile. Parlando della mia organizzazione, come di quasi tutte quelle non governative globali, la tendenza, circa da marzo, è di effettuare tutte le operazioni in dollaro, evitando di partecipare alle speculazioni che stanno avendo luogo nel paese.
Molte nazioni si sono dette pronte ad aiutare economicamente il Libano, istituzioni internazionali come il FMI avevano promesso al Paese, già prima di questa tragedia, fondi per superare la crisi economica. Ma sembra che la condizione affinché questi soldi possano arrivare sia l’uscita di Hezbollah dal governo e il suo disarmo. E’ così?
Non saprei rispondere a questa domanda. Ti dico solo che il nostro governo è stato capace, a distanza di 2 giorni dall’esplosione, di rifiutare aiuti sanitari che aveva offerto l’organizzazione francese “Secouristes Sans Frontières” agli ospedali, dichiarando di non averne bisogno. Comunque molte organizzazioni ed istituzioni internazionali stanno già inviando degli aiuti che sono già arrivati all’aeroporto nazionale di Beirut. Nei due giorni successivi all’esplosione, sono state lanciate molte iniziative per creare organizzazioni locali che possano raccogliere fondi e aiuti per evitare che i soldi finiscano direttamente a un governo corrotto che li ruberebbe.
Hai scelto di tornare a vivere a Beirut dopo tanti anni passati in Italia all’Aquila, dove tra l’altro hai vissuto anche il terremoto del 2009. Cosa ti ha spinto a fare questa scelta?
Ho sempre avuto un debole per il Libano, nonostante mi sentissi anche mezza aquilana. Già dall’estate 2015 la direzione del consorzio con il quale collaboravo all’Università ci avvisò che avrebbe chiuso per mancanza di fondi e in Italia non trovavo opportunità lavorative valide. Non ti nego che già da un po’ sentivo la voglia di spostarmi, cambiare lavoro, allora mi sono chiesta: “Perché non collaborare con un’organizzazione globale che si occupa di rifugiati?’. Il luogo più semplice da dove cominciare era chiaramente il Libano, dove c’era mia mamma. Durante il mio ultimo giorno di lavoro all’Aquila a ottobre 2015, mi arrivò una mail dall’organizzazione con la quale lavoro tutt’oggi per fare un colloquio, e il 4 gennaio 2016 cominciai a lavorare con loro.