Paolo Damiani è una delle personalità più importanti e creative del jazz italiano. Contrabbassista, violoncellista, compositore e direttore d’orchestra, affianca da molti anni all’attività di musicista quella di insegnante, organizzatore di eventi e direttore artistico di festival di primo piano, come Una striscia di terra feconda.
Quest’anno, insieme a Rita Marcotulli e a Alessandro Fedrigo, è anche il direttore artistico del Jazz italiano per le terre del sisma.
L’Aquila è una città che Damiani conosce molto bene. La sua attività didattica iniziò infatti al conservatorio Casella, nel lontano 1983, quando fu istituita una delle primissime cattedre di musica jazz d’Italia, per volontà del compianto Vittorio Antonellini.
Maestro, che effetto le ha fatto tornare e che città ha ritrovato?
L’Aquila è una città che amo molto, qui ho insegnato per 17 anni prima di trasferirmi a Roma, al conservatorio S. Cecilia. Il Casella è uno dei conservatori più importanti d’Italia. Ho visto una città rinata, ero qui nella prima edizione, quella del 2015, ho ancora ben impresse le immagini della devastazione, le zone rosse. Mi sembra che oggi il centro sia tornato a vivere, anche grazie alla grande energia dei cittadini e delle cittadine. E anche se molto rimane da fare, soprattutto nelle periferie, credo che siate sulla buona strada.
Ha ricordi particolari degli anni trascorsi qui?
Ricordo una città molto viva dal punto di vista musicale. Qui ha operato il grande, leggendario Nino Carloni, e ho un bellissimo ricordo di Vittorio Antonellini. Fu lui a volere che venisse istituita la cattedra di jazz al conservatorio Casella, che fu la seconda in assoluto a nascere in Italia, dopo quella di Giorgio Gaslini a Roma. Qui c’è sempre stata una grande attenzione alla contemporaneità e alla ricerca, cosa che non si può dire di molti altri conservatori, che sono molto legati, invece, alla tradizione.
Siamo arrivati alla settima edizione del festival, nato per non far calare l’attenzione su L’Aquila e gli altri territori del Centro Italia colpiti dai terremoti ma diventato negli anni uno dei maggiori festival jazz italiani. Secondo lei l’attuale format va mantenuto?
Più che di un festival, che mi sembra un termine riduttivo, parlerei di un’azione musicale collettiva. In questo sta la particolarità e l’unicità di questa manifestazione. L’unicità è data anche dal fatto che si fanno tante produzioni originali. In termini pratici significa mettere insieme artisti che non hanno mai suonato insieme e farli suonare in loco. Sono operazioni anche rischiose, perché non è detto che i risultati siano ottimali. Ma è molto importante che l’arte rischi per produrre cose nuove. Da quest’anno, poi, c’è un forte impulso verso la multimedialità: far incontrare il jazz con altri linguaggi artistici, la danza ma anche il cinema, la poesia, il video, i reading. E’ un evento culturale in senso alto, a tutto campo, e spero che si continui, anche in futuro, a mantenere questa impostazione.
Paolo Fresu ha sempre detto, in questi anni, che anche per il jazz italiano esiste un prima e un dopo L’Aquila. Qual è lo stato di salute del movimento?
Negli ultimi anni il jazz italiano è diventato adulto anche perché si è dato delle strutture che prima non esistevano, in particolare la Federazione nazionale, che comprende tutte le più importanti associazioni del settore. Dietro tutto ciò c’è un mondo ricchissimo di personalità e di talento. Purtroppo, con il Covid, siamo stati i primi a chiudere e gli ultimi a riaprire, da un anno e mezzo c’è una gravissima crisi del settore e non si capisce perché, se 25 mila persone possono stare in uno stadio di calcio per vedere una partita, non si possano mettere 2 mila persone, con le opportune misure di distanziamento, a godere di un bel concerto. C’è ancora molto da fare da questo punto di vista.
Uno degli elementi caratterizzanti del Jazz italiano per le terre del sisma è quello dei laboratori con le scuole. Da insegnante e formatore, com’è messo l’insegnamento del jazz e in generale della musica in Italia?
La situazione sta molto migliorando. Tra le altre cose, sono il direttore artistico di un comitato per l’apprendimento pratico della musica a scuola, presieduto dall’ex ministro Luigi Berlinguer, e stiamo facendo un grande lavoro per fare in modo che la musica abbia pari dignità rispetto alle altre discipline. L’insegnamento della musica a scuola dovrebbe essere obbligatorio, ci sono studi che dimostrano come un bambino o una bambina che studiano musica sin da piccoli poi hanno rendimenti migliori anche nelle altre materie. Studiare musica è un modo per aprire la mente, per accrescere la sensibilità e la cura del gusto. Non è un caso che in Afghanistan la prima cosa che abbiano proibito i talebani sia stata la musica. Questo la dice lunga. La musica è un potentissimo strumento di aggregazione e presa di coscienza, non è soltanto mero divertimento, come purtroppo pensano alcuni ministri di questo Paese. E’ cultura con la C maiuscola e in questo senso quello che si fa alla scuola Dante Alighieri è un lavoro molto importante. Pochi mesi fa ho tenuto una masterclass di qualche giorno e ho trovato studenti molto preparati e docenti motivati e competenti.