di Stefano M. Torelli* - Dopo gli attentati del 13 novembre scorso a Parigi, il terrore torna in Europa, in quello che è il suo simbolo istituzionale e politico: Bruxelles. Gli attentati contro l’aeroporto di Zaventem e la stazione della metropolitana di Maelbeek (non lontano dai luoghi fisici delle istituzioni europee) avvengono soltanto quattro giorni dopo l’arresto – sempre a Bruxelles – di Salah Abdeslam, il ricercato numero uno d’Europa per via del suo ruolo proprio negli attacchi di Parigi. Da un lato, come era del resto stato sottolineato da diverse voci, era impensabile illudersi che dopo quell’arresto la scia jihadista in Europa si sarebbe fermata. Dall’altro lato, gli attentati di Bruxelles, alla pari di quelli avvenuti a Parigi, ci impongono delle serie riflessioni sia sulla natura degli attori che stanno attaccando l’Europa, sia sui loro scopi. Ma, soprattutto, ci impongono una riflessione sul tipo di risposta che i governi europei devono dare di fronte alla minaccia jihadista.
In giornate come questa la reazione emotiva rischia di prendere il sopravvento su quella razionale. Già molte voci – analisti, commentatori, politici – si sono levate per invocare la 'guerra' che l’Europa starebbe vivendo. C’è chi dice che, se volessimo chiamare le cose con il loro nome, dovremmo dire che gli attacchi a Bruxelles sono 'guerra' e non 'terrorismo'. In realtà, queste stesse affermazioni indicano che il terrorismo – tale è la minaccia jihadista che abbiamo di fronte – sta già ottenendo i primi risultati. Proprio perché le parole sono importanti, soprattutto quando possono avere delle conseguenze molto serie per gli effetti che possono creare, è doveroso riflettere sul fatto che, se si ammettesse di “essere in guerra”, allora dovrebbe essere chiara anche l’identità del nostro nemico. E si dovrebbe contro-attaccare.
Qui sorgono i primi problemi: chi è il nemico? Da un lato, potremmo guardare al nemico che è fuori dai nostri confini (il cosiddetto Stato Islamico, IS, ma anche al-Qaeda e le sue organizzazioni sorelle) in Iraq, Siria, Algeria, Mali, ecc… Eppure in questi anni ci siamo concentrati (l’Europa a vario titolo e gli Stati Uniti) quasi esclusivamente sul nemico esterno, con le guerre in Afghanistan e Iraq, i bombardamenti “mirati” in Libia, Somalia, Pakistan, e il risultato è stata un'escalation di violenza jihadista su scala globale senza precedenti. Ciò vuol dire che, evidentemente, o si è fatta una guerra contro il “nemico sbagliato”, oppure si è contribuito a rafforzare quel nemico, tramite azioni poco efficaci e controproducenti. In questo caso la domanda che dovremmo porci è: cosa è andato storto nella guerra al terrore lanciata quindici anni fa, all’indomani dell’11 settembre?
Dall’altro lato, potremmo invece concentrarci sul “nemico interno”, dal momento che, da Parigi a Bruxelles, gli attentatori sembrano essere persone che vivono nelle nostre città, che sono nate e cresciute in Europa e, in parte, hanno addirittura goduto di qualche tipo di protezione in alcuni ambienti delle nostre capitali. A questo punto, ragionando per assurdo e richiamando un clima di guerra, cosa dovrebbero fare le autorità europee? È evidente, infatti, che non si possono colpire intere comunità musulmane che vivono in Europa, solo per essere certi di colpire anche gli individui responsabili degli atti di terrorismo. A meno che non si voglia criminalizzare un’intera collettività come responsabile per gli atti di alcune persone che ne fanno parte. Ciò, come dimostrato dalla storia in vari contesti, non fa altro che contribuire a radicalizzare le posizioni. Dunque, la risposta potrebbe essere: non siamo in guerra, ma siamo al centro di una campagna di terrore, perpetrata da attori che pur usano tattiche di guerra asimmetrica.
Che scopi vuole raggiungere il terrorismo che ci sta colpendo e attraverso quali attori agisce? Gli obiettivi sono evidentemente multi-livello. Da un lato, vi è la volontà chiara di colpire l’Occidente e l’Europa. Dall’altro (vista anche la sofisticatezza degli attentati sembra altamente improbabile che questi possano essere stati pianificati e realizzati in soli 4 giorni) vi è un messaggio all’Europa stessa: nonostante gli arresti della settimana scorsa a Bruxelles, siamo ancora in grado di colpire. Da non sottovalutare, però, quello che probabilmente è l’obiettivo principale del terrorismo, di qualunque matrice esso sia: creare un clima di terrore, appunto, tale da far scatenare una reazione altrettanto violenta. Questa è funzionale ad alimentare la retorica dell’oppresso contro l’oppressore, del “ci stanno colpendo tutti, indiscriminatamente”, e creare quindi un clima di odio nei confronti del nemico che si vuole colpire (in questo caso, a vari livelli, i governi europei).
Se si scatenasse questo circolo vizioso, il gioco del terrorismo sarebbe vincente. Non è sicuramente facile, e richiede uno sforzo (pratico e politico) molto più grande, ma il modo migliore e il più efficace per combattere il terrorismo è proprio quello di isolare le cellule radicali dal loro contesto, non di colpire quello stesso contesto indiscriminatamente. Allo stesso modo, la reazione istintiva della chiusura di ogni paese in se stesso, del blocco delle frontiere, della sospensione di Schengen, potrebbe essere poco o per nulla efficace, oltre a indebolire l’Europa stessa. Salah Abdeslam, prima di essere arrestato, è stato 4 mesi nello stesso quartiere di Bruxelles. Coloro che vengono reclutati come foreign fighters dall’Europa, in molti casi, vengono reclutati in rete. Ha senso parlare di chiusura delle frontiere nell’epoca del “reclutamento 3.0”, che va oltre le barriere materiali? Sicuramente è una misura d’emergenza che va presa in determinati momenti, ma non sarà questa misura a fermare il terrorismo che sta colpendo l’Europa dal suo interno.
Per tornare alla risposta da dare, una delle riflessioni da fare riguarda proprio la natura autoctona del jihadismo di Parigi e Bruxelles. Mentre l’attenzione mediatica e politica mondiale era rivolta a stanare i terroristi in Medio Oriente e in Africa, si stava già creando nei quartieri europei il substrato ideale affinché il terrorismo potesse attecchire. Chi scrive non crede che il disagio delle banlieues sia l’unica motivazione dietro il terrorismo cui stiamo assistendo, ma sicuramente è una concausa. Anni di politiche fallimentari in Medio Oriente hanno contribuito a creare l’immagine di un nemico, l’Occidente, contro cui incanalare l’odio maturato anche da coloro che si sono radicalizzati all’interno dei nostri confini. Tale strategia è stata pianificata da un’organizzazione politica che riesce a sfruttare il senso di appartenenza comune che caratterizza l’Islam. Il concetto di umma, comunità islamica, rende i musulmani sotto le bombe in Iraq e quelli nei quartieri di Bruxelles fratelli. Di qui a “radicalizzare” l’Islam il passo è breve, soprattutto in mancanza di politiche alternative volte a de-strutturare la retorica manichea del jihadismo che mira allo scontro di civiltà. Uno scontro di civiltà che non deve essere cavalcato. Questo non vuol dire che non vi sia bisogno anche di una chiara risposta “militare” all’escalation di violenza che l’Europa sta subendo.
Come in tutti gli scontri, però, tale risposta deve prima di tutto individuare il bersaglio da colpire e non sparare nel mucchio.
di Stefano M. Torelli per ISPI - Istituto per gli studi di Politica internazionale
*Stefano M. Torelli è research fellow dell'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI), e direttore responsabile della Rivista italiana di studi sull'Islam Politico, pubblicata dal Centro Italiano di Studi sull'Islam Politico (CISIP). La sua ricerca si concentra sugli studi mediorientali e, in particolare, sull’Islam politico, Tunisia e Turchia. Su queste tematiche, cura una rubrica settimanale per Sette, il magazine del Corriere della Sera.