Il giorno dopo, per la politica italiana è l’ennesimo terremoto.
Si parta da una considerazione: l’Italia, nel panorama europeo delineato dalle elezioni del 26 maggio, è un caso, una sorta di anomalia.
In Europa tengono le famiglie tradizionali, i popolari (180 seggi) e i socialisti (146 seggi), sebbene il voto abbia segnato la fine della loro egemonia in Parlamento, con una settantina di seggi in meno e la necessità, dunque, di volgere lo sguardo ai Liberali, o ai Verdi, per trovare una maggioranza. D’altra parte, non sfondano gli euroscettici che, pure, crescono: il gruppo fondato da Marine Le Pen e sostenuto da Matteo Salvini – tra i vincitori con Viktor Orbán delle Europee - si sarebbe fermato a 58 seggi, lontano dai 100 deputati che era l’obiettivo dichiarato. Non solo. In Olanda, Finlandia e Slovacchia i sovranisti hanno arretrato: resta la grande affermazione del premier ungherese Orbán che, però, sta dentro il Ppe.
Sta di fatto che il fronte europeista prevale ancora, con l’affermazione dei Liberali – da 68 a 109 seggi con la formazione che raggruppa l’Alde e l’En Marche di Emmanuel Macron – e soprattutto dei Verdi, balzati da 52 a 69 seggi. Il gruppo di sinistra Gue si sarebbe attestato a 39 seggi. Per completare il quadro, i Conservatori e riformisti – cui aderiscono i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni – avrebbero ottenuto 59 parlamentari, col gruppo Efdd (quello dei 5 Stelle e di Nigel Farage) fermo a 54: a dire che il fronte sovranista, stando larghi, arriverebbe a non più di 171 europarlamentari, e pure la presenza di Orban dentro il Ppe – sia chiaro - è piuttosto marginale.
Ecco il motivo per cui l’Italia rappresenta un caso, un’anomalia, con la netta affermazione della Lega di Matteo Salvini che è arrivata al 34% e il buon risultato di Fratelli d’Italia, al 6.5%: il fronte sovranista, nel paese, supera la soglia del 40%. Se si aggiunge il declino di Forza Italia, scesa sotto la soglia psicologica del 10%, con la resa dei conti interna già iniziata e un blocco pronto a voltarsi a destra, è evidente come in Italia ci sia una nuova, e robusta, maggioranza di destra radicale, come non accade negli altri grandi paesi del vecchio Continente.
Banale a dirsi: il risultato delle europee avrà ripercussioni violente sul governo Conte. Se l’esecutivo era nato sul contratto di governo tra due forze, l’una di maggioranza, il Movimento 5 Stelle, e l’altra di minoranza, la Lega, in meno di un anno gli equilibri si sono completamente rovesciati, con i pentastellati precipitati al 17%. A Salvini è riuscita l’impresa di porsi come alternativa al Governo di cui è vice premier e ministro dell’Interno, di scaricare sull’alleato le difficoltà di un anno di legislatura che non ha portato i risultati sperati.
"Il contratto di governo non si cambia e lo tuteleremo: saremo argine" ha chiarito poco fa il ministro del Lavoro e vicepremier Luigi Di Maio, dopo una lunga notte di silenzio. "Noi - ha aggiunto - pensiamo che si debba andare avanti per fare le cose. Se ci sono delle richieste che vengono dalla Lega, aspetto che si facciano di persona, mi auguro sia finita la stagione in cui ci diciamo le cose a mezzo stampa". Tuttavia, è chiaro che, d’ora in avanti, la Lega vorrà imporre le sue scelte, dando un’ulteriore svolta a destra ad un governo che, d’altra parte, pareva già a trazione leghista. “Ridurre le tasse, accelerare sull’autonomia e infrastrutture”: in poche parole Salvini ha già dettato l’agenda, mettendo sul tavolo, in particolare, la realizzazione della Tav e dell’autonomia differenziata, indigesti ai 5 Stelle.
E dunque? Di Maio si è ficcato in un vicolo cieco: stare al governo con Salvini sapendo che, d’ora in avanti, sarà il Carroccio a dettare l’agenda, oppure assumersi la responsabilità di far cadere il Governo; in entrambi i casi, è piuttosto prevedibile che i pentastellati possano perdere ancora consenso, stritolati nell’abbraccio mortale del nemico alleato.
Di Maio ha tutto da perdere, Salvini tutto da guadagnare.
D’altra parte, in caso di caduta del Governo – questo è il ragionamento del leader della Lega – una maggioranza alternativa ci sarebbe e per Mattarella non sarebbe affatto semplice imporre un governo tecnico. Sullo sfondo resta, comunque, una manovra di bilancio lacrime e sangue, col governo che metterà le mani nelle tasche degli italiani e con l’aumento dell’Iva che, oramai, appare come un dato di fatto.
In questo scenario, si guarda a sinistra per immaginare una alternativa, vera, ai sovranismi italici. E qui, stona un poco, va detto, l’entusiasmo manifestato in queste ore dalla segreteria del Partito Democratico. E' vero: i dem sono arrivati al 22.7%, superando la soglia psicologica del 20% e sopravanzando, soprattutto, il Movimento 5 Stelle, con una parte di elettorato che aveva guardato ai pentastellati che ha deciso di tornare a ‘casa’. Inutile guardare alle europee di 5 anni fa, all’exploit di Renzi che arrivò al 40%: va sottolineato, tuttavia, come il Pd, rispetto alle elezioni politiche del marzo 2018, abbia perso poco più di 120 mila voti.
Inoltre, il voto ai democratici - in parte che non fatichiamo a definire considerevole - è parso un voto di resistenza più che su un progetto politico condiviso, di contrapposizione alla marea nera che si annunciava sul Paese; la stessa decisione di Articolo 1, nient’affatto fortunata, di candidare alcuni suoi uomini nelle liste dem è da interpretarsi così. A sinistra dei dem è rimasta soltanto la polvere, con l’ennesimo fallimento di un progetto politico finalizzato unicamente alle urne.
"Non è un arrivo, ma è finalmente una ripartenza. Noi crediamo che il voto di ieri apra una situazione politica nuova e diversa nella quale il PD svolgerà un ruolo importante di battaglia politica e costruzione di una alternativa”, le parole di Nicola Zingaretti. Che ha segnato la strada per i prossimi mesi: primo, chiamare a raccolta “tutte le forze sociali, civiche, associative che avvertono il pericolo di un governo a forte egemonia della destra italiana per costruire insieme un’agenda alternativa basata su lavoro, sviluppo, inclusione sociale”; secondo, continuare a scommettere sulla ricostruzione di una nuova alleanza di centrosinistra e, terzo, “aprire una fase rifondativa del partito”.
La sensazione è che Zingaretti debba trovare il coraggio di lanciare una vera rifondazione, che passi, però, dall’azzeramento delle segreterie, del Pd e degli altri partiti della galassia di sinistra, per dare corpo ad una alternativa che, tuttavia, dovrà essere ricostruita da zero, a partire da un universo valoriale condiviso e da una chiara connotazione ideologica. Chiamare a raccolta le forze sociali, civiche e associative per il solo pericolo di una virata verso destra del governo, imponendo poi, comunque, logiche correntizie e rendite di posizione che, in questi anni, hanno soffocato qualsiasi tentativo di una vera ricostruzione, sarebbe davvero un peccato mortale. E sarebbe presuntuoso, stupido verrebbe da dire, speculare sul voto di ieri che, lo ribadiamo, è stato un voto in parte di resistenza.
Se si avrà il coraggio di farlo, di ripartire davvero, allora la sinistra italiana avrà modo di tornare ad essere protagonista della vita politica del Paese, come accade in altri paesi dell’Unione, a partire dalla vicina Spagna. In questo senso, ben venga l’annunciata, da mesi, nascita di un partito centrista, renziano, sul modello francese di En Marche: in una logica proporzionale sarebbe un beneficio per tutti, per i progressisti e per i moderati di centro che, insieme, perdono consenso e separati potrebbero, invece, guadagnarne.
Un’ultima considerazione sul voto: il Pd vince nelle grandi città, a Milano – con un risultato incredibile – e così a Roma, Torino, Firenze. Stando alle prime proiezioni dei principali comuni al voto per le amministrative, vince a Firenze, Bari e Bergamo. Perde, invece, in provincia. Una sorta di effetto Brexit, per intendersi, con il ‘leave’ che aveva vinto lontano dai ricchi agglomerati urbani, lo stesso che si è raccontato negli Stati Uniti, con la vittoria di Donald Trump che lontano dalle metropoli delle coste est ed ovest si è materializzata negli Stati più remoti, e poveri, del cuore profondo d’America. Attenzione a cadere nella facile generalizzazione del livello culturale degli elettori, però: di nuovo, il voto per il leave, così come la scelta di Hillary Clinton o del Pd nelle grandi città italiane passa, in alcuni casi, per la capacità di mettere in campo una classe dirigente locale adeguata e, in altri, come forma di resistenza a spinte reazionarie. Il mondo progressista, però – e la definizione sta stretta, ce ne rendiamo conto – non ha ancora trovato la giusta chiave di lettura per dare una interpretazione ai tempi che viviamo, per dare una risposta al mondo del lavoro, ai ceti più deboli della società, agli ultimi e ai più indifesi che finiscono, inesorabilmente, per guardare altrove.
Laddove è riuscita nell'intento, la sinistra è viva e capace di porsi come forza di governo, e non – soltanto – di resistenza.