Di Marco Signori - Il plebiscito che l’Abruzzo ha tributato a Luciano D’Alfonso, in linea con quello che è stato capace di conquistare rapidamente Matteo Renzi, segna la fine del centrodestra ma anche della sinistra.
Capace di fagocitare quasi tutte le forze avversarie, soprattutto quelle alla sua sinistra, il neo presidente di Regione, quasi alla stregua del premier, ha costruito una coalizione interamente subordinata alla sua figura.
Ha vinto Luciano D’Alfonso, non il Pd o il centrosinistra. Come nel resto d’Italia è stato l’ex sindaco di Firenze a vincere. Sono uomini soli al comando che nel giro di pochi mesi sono stati in grado di annichilire ogni contraddittorio. Soprattutto interno, se si pensa alle ultime prese di posizione delle minoranze Pd o, in Abruzzo, a quanto il neo presidente abbia ignorato ogni sollevazione seguita a candidature ritenute, a ragione, inopportune.
Tutte le individualità, insomma, soggiogate al leader. Comandano Matteo a Roma e Luciano a L’Aquila. Neanche troppo a Pescara quanto nel capoluogo, che riserva all’ex sindaco della città storicamente rivale un inedito consenso. Con i vertici del Pd che mostrano i muscoli dimostrando come, se loro vogliono, nei posti che contano riescono ad esserci: questo è il dato che emerge dall’elezione di Pierpaolo Pietrucci, che grazie alla benedizione di Stefania Pezzopane, Giovanni Lolli e Massimo Cialente che era mancata cinque anni fa a Gianni Anastasio, centra un risultato che non si raggiungeva da quindici anni. Perché mai, nelle tornate precedenti, il gotha democratico aveva individuato un proprio erede.
Nessuna voce, ma soprattutto nessun atto consequenziale nel segreto dell’urna, si è alzata contro l’inopportunità di candidare un uomo che avesse ancora conti aperti con la giustizia e non avesse mai del tutto chiarito alla opinione pubblica come abbia fatto, ad esempio, a vivere senza mai prelevare denaro dai propri conti correnti, così come risulta dalle carte processuali.
Nessuna obiezione, da parte di un elettorato storicamente attento alla questione morale, alla presenza nelle liste di transfughi, persone dalla dubbia integrità, esponenti di un sottobosco (anti)politico che hanno spesso portato la regione alla ribalta delle cronache nazionali. Negativamente, naturalmente.
Segno dei tempi e di quanto anche l’aspettativa del popolo di centrosinistra si sia ridotta.
E per una società che cambia, anche l’offerta politica non può che adeguarsi. Inutili ad esempio, per la sinistra guidata da Maurizio Acerbo, anni di battaglie per l’ambiente, il lavoro, i diritti: racimola percentuali da prefisso telefonico. Forse anche a causa di incomprensibili dinamiche locali, come all’Aquila dove è tutta da interpretare la discrasia tra il risultato della lista Tsipras alle europee che sfiora il 10% e quello de L’Altra Regione che non arriva neanche alla metà.
Mutuando Michele Serra, che all’indomani del voto regionale siciliano, alla luce dell’enorme astensionismo, scriveva che chi non vota perde il diritto di lamentarsi, oggi in Abruzzo si potrebbe affermare che chi ha votato quello che in campagna elettorale chiamammo caravanserraglio dalfonsiano, ha ora perduto il diritto di criticare. E per i prossimi cinque anni.
Il timore, tuttavia, a giudicare da un rapidissimo sondaggio maccheronico effettuato fuori i seggi domenica scorsa, è che più di qualcuno nel rispetto della tradizione abbia compiuto una scelta turandosi il naso. Non è forse significativo il fatto che Giovanni Lolli rispondendo al sottoscritto in diretta televisiva abbia condiviso l’inopportunità di candidare personaggi come Daniela Stati, Donato Di Fonzo, Giorgio D’Ambrosio o Donato Di Matteo e confermato la propria distanza siderale dai metodi di far politica di costoro?
La domanda di fondo resta una: possibile che la classe politica, che pure dovrebbe essere espressione della società, non abbia mai nessuno da proporre che non abbia avuto o abbia tuttora guai giudiziari, e sulla cui integrità morale è possibile non dubitare?