E' stata una stagione sportiva terribile, per la città dell'Aquila. Prima, la retrocessione dell'Aquila Rugby Club; dunque, la 'Caporetto' dell'Aquila calcio che, sconfitta a Rimini nel ritorno dei play-out, è sprofondata in serie D, tornando tra i dilettanti dopo sei anni, giusto qualche mese dopo aver cullato il sogno del grande salto in serie B. Una stagione che lascerà il segno, nel mondo sportivo cittadino. Ora, è il momento di capire cosa è accaduto, per ripartire di slancio e riconquistare quei palcoscenici che la storia dello sport aquilano merita. E a proposito di storia, per smaltire - se possibile - la delusione, proviamo a strapparvi un sorriso con il racconto di Ford Prefect, che un pezzettino di questa storia l'ha ripercorso con noi.
In città non ci sono molti posti dove prendere un buon Martini, e uno di questi luoghi benedetti è il bar del Circolo Tennis, o “Il servizio” che dir si voglia, uno di quei locali dove, se hanno finito il gin buono, te lo dicono senza tentare di propinarti una porcheria. Sto seduto sul mio divanetto a praticare il mio sport preferito, che consiste guardare gli altri sudare mentre mi do arie da grande esperto.
Nella fattispecie gli oggetti delle mie attenzioni sono un quartetto di volenterosi tennisti non più giovanissimi che, sfidando gli anni, il clima freddino e i miei sguardi irrispettosi ci danno di dritto e di rovescio sul campo centrale con buona pace del serve and volley.
Il Martini induce spesso delirio di onnipotenza e più raramente malinconia. In questo caso prevale la seconda, e col pensiero rivado a quando passeggiavo tra questi vialetti con i pantaloncini corti e in spalla la mia racchetta, una poderosa Adidas Ivan Lendl pesante come una mazza ferrata. L'uomo che si assunse l'onere improbo di forgiare i miei fondamentali tennistici è un personaggio che ha attraversato un bel pezzo di storia sportiva di questa città, quel Marino Bon che dalla natìa Trieste venne a giocare a calcio nell'Aquila ai tempi d'oro della Serie B degli anni Trenta.
Quell'Aquila stellare si schiantò contro il destino nel tragico incidente in littorina del '36, nel quale la squadra fu decimata e Marino venne addirittura dato per morto in un primo momento. Passato poi al tennis, ha cresciuto da maestro intere generazioni di aquilani ottenendo risultati molto più lusinghieri di quanto realizzato col sottoscritto e col suo debole rovescio tagliato. Ogni volta che sbagliavi un colpo, Marino ti gridava “Ostia!”. Ogni volta che azzeccavi un colpo, Marino ti gridava “Ostia!”. “Ostia!” era la parola chiave.
Marino Bon è uno delle decine di personaggi che compongono il pantheon sportivo di questa città e che con le loro gesta hanno dato lustro a quel triangolo chiuso tra il parco del Castello, viale della Croce Rossa e la zona dell'ex Ospedale dove si ammassa il grosso degli impianti storici. Adelchi Serena, gerarca fascista, affacciandosi dalla fine del corso e guardando la landa desolata che gli si apriva davanti deve aver pensato: ”Bene, di questo deserto faremo una città dello sport”. E in men che non si dica in mezzo a quelle polverose stradine di campagna sorsero lo stadio col velodromo, la piscina comunale, il circolo tennis e il palazzetto dello sport.
Oggi, a decenni di distanza, questo posizionamento sembra il parto di un urbanista pazzo, dato che la zona è tra le più trafficate della città e il parcheggio si tramanda ormai con regolari atti notarili da occupante ad occupante.
Ci potremmo soffermare a disquisire sul valore storico di questo complesso, ma, anche volendo soprassedere alla mia totale impreparazione a riguardo, il Martini apre inesorabilmente una voragine emotiva che trascina i miei pensieri sul significato sociale di questi luoghi. Posti in cui si è formato l'immaginario sportivo giovanile di tante aquilane e aquilani (forse numericamente un po' più dei secondi) ai tempi in cui c'era la domenica del calcio e poi quella della rugby (sempre maschile il primo e femminile la seconda), e nei rari casi in cui i calendari portavano entrambe le squadre in casa era una festa che cominciava alle undici di mattina per finire alle cinque. Tregenda e disperazione quando il Dio dello sport allontanava simultaneamente entrambe le compagini, ed allora erano pomeriggi leopardiani a riflettere sull'abisso dell'animo, attaccati alla radiolina o fuori al Sette Nani ad aspettare i risultati.
Il rito cominciava nel bar dello stadio, a conquistarsi un caffè o un crodino a spallate. E quando aprì il secondo bar ai distinti bisognava fare un salto da entrambe le parti per non perdersi niente. C'erano quelli della tribuna e quelli dei distinti, con gli ultras che cominciavano a popolare la curva, e il posizionamento sugli spalti richiamava le complesse dinamiche della scelta della “colonna” sotto i portici.
E poi dentro le mura di quello stadio, mentre in campo la Scavolini segnava con regolarità una meta ogni cinque minuti o L'Aquila calcio, ai tempi duri dell'Interregionale, faticava contro squadre dai nomi improbabili, dal Tharros all'Elettrocarbonium all'Astrea Roma, andava in scena il rituale laico di una socialità genuina, una partitura collettiva a cui tutti contribuivano con lo strepitìo delle loro grida, col contrappunto dei loro silenzi, con gli sfottò sanguinosi sulla genealogia degli arbitri veneti che “ce li mandano tutti a noi”.
I successi “della rugby” e gli sforzi “del calcio”, che negli anni a venire sarebbero stati destinati a scambiarsi di posto, sarebbero niente se privati del corollario di ricca aneddotica da spalto che meriterebbe un libro a sé e che ognuno di noi, ciascuno per il proprio capitoletto, ha contribuito a scrivere e di cui serba memoria, dalla poco decubertiniana intonazione collettiva del coro “per i miseri invoca perdono, per i deboli invoca pietà” a sancire l'ennesimo predominio dei nostri rugbisti, fino ai primi, timidi cori “da ultrà” che cercavano con fatica di scuotere uno stadio ancora molto lontano dai riti del tifo calcistico metropolitano.
Va da sé che, oltre alla storia emotiva, ce ne è tanta di autenticamente sportiva: i successi, gli scudetti rugbistici e le promozioni calcistiche, le Olimpiadi del '60, le partite della nazionale di rugby, alternati alle pagine più difficili che spesso sono quelle davvero importanti di un percorso sportivo. Ma tanto questa storia la conoscete tutti e sicuramente meglio di me.
Il mio Martini è finito, in perfetto sincrono con le prodezze tennistiche dei quattro eroi del centrale che hanno persino sfidato qualche goccia di pioggia. Mi alzo per andare a pagare, e mi cade l'occhio su una targa a bordo campo. Mi avvicino per leggere.
“Campo centrale Marino Bon”
Il mio maestro è diventato il campo centrale. Vacillo mentre gli ultimi trent'anni mi si abbattono sulle spalle come un'incudine.
Mi esce solo un sussurro:
“Ostia...”