Sabato, 04 Giugno 2016 11:02

Il mondo saluta 'The Greatest': a 74 anni, è morto Muhammad Alì

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"Quando si è grandi come lo sono io, è difficile essere modesti", diceva Muhammad Alì, l'uomo che 'volava come una farfalla e pungeva come un'ape'.

Modesto non è lo mai stato, 'The Greatest', il più grande sportivo del XX secolo, l'uomo che affrontò la vita con un ghigno che non lo abbandonò mai, nemmeno quando accese la torcia Olimpica ad Atlanta, nel 1996, tremante per il morbo di Parkinson che l'aveva colpito duro, intorno a cui danzava come un tempo, però.

Muhammad Alì è morto a 74 anni, all'ospedale di Phoenix, dove era stato ricoverato due giorni fa per problemi respiratori. Resterà per sempre, però, e stavolta la retorica non c'entra proprio nulla.

Resterà la sua classe sul ring, la medaglia d'oro alle Olimpiadi di Roma, nel 1960, che lo svelò al mondo e, racconta la leggenda, finì in fondo ad un fiume dopo che un cameriere bianco si era rifiutato di servirlo. Resterà la trilogia di sfide con Joe Smoking Frazier, l'uomo che lo mandò al tappeto al Madison Square Garden nel 1971, il pugile che soffrì più di altri, seppure "troppo brutto per essere campione. Joe Frazier è troppo stupido per essere campione. Il campione dei massimi deve essere intelligente e grazioso come me!", lo irrideva Alì. Resterà la 'Rumble in the Jungle' con George Foreman, il match più brutale, otto round che scrissero una pagina di boxe indimenticabile. Foreman, il gigante, arrivato a Kinshasa con il suo pastore tedesco, deciso a confermarsi campione dei pesi massimi; Alì, il 'fratello nero', accolto da Re al grido 'Alì boma ye', Alì uccidilo. Ci mancò poco: Foreman picchiò fortissimo, e quando George colpiva "faceva male, ogni suo colpo qualche danno lo provocava sempre, ti spaccava un muscolo, ti incrinava qualche osso"; Alì restò in piedi, continuò a danzare, e punse, punse come un'ape.

Ma resteranno soprattutto le battaglie fuori dal ring. D'altra parte, "i campioni non si fanno nelle palestre. I campioni si fanno con qualcosa che hanno nel loro profondo: un desiderio, un sogno, una visione", diceva Muhammad, che portò la sua visione fuori dal ring, oltre lo sport, come nessuno prima e dopo di lui. Mai una banalità, ma un continuo bersagliare il perbenismo di una certa America, conservatrice ed incapace di accettare che il campione del mondo dei pesi massimi rifiutasse di 'onorare' la patria nella follia del Vietnam. "Non ho niente contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato negro...".  Una scelta di coscienza che gli costò il ritiro della licenza e la perdita del titolo dei pesi massimi.

Negro, così era nato con il nome di Cassius Clay, abbandonato al momento della conversione all'Islam, e negro rimase fino alla fine. Orgogliosamente. "Muhammad significa degno di lode, e Ali significa altissimo. Clay significa creta, polvere. Quando ho riflettuto su questo, ho capito tutto. Ci insegnano ad amare il bianco ed odiare il nero. Il colore nero significa essere tagliato fuori, ostracizzato. Il nero era male. Pensiamo a blackmail, ricatto. Hanno fatto l'angel cake bianco e il devil's food cake color cioccolato. Il brutto anatroccolo è nero. E poi c'è la magia nera... Quel che voglio dire è che nero è bello. Nel commercio il nero è meglio del rosso. Pensate al succo di mora: più nera è la mora, più dolce il succo. La terra grassa, fertile, è nera. Il nero non è male. I più grandi giocatori di baseball sono neri. I più grandi giocatori di football americano sono neri. I più grandi pugili sono neri".

Alì è stato uno dei pochi personaggi di fronte ai quali è impossibile restare indifferenti. E già manca moltissimo.

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