Mentre una corda tracciava il confine tra la vita e la morte di un detenuto del penitenziario di S. Angelo dei Lombardi, ponendo fine a 64 anni alla sua vita, come altri “poveri cristi” delle carceri italiane, un'altra pena si sommava alle tante che i reclusi italiani devono scontare.
E’ stato denunciato ieri il secondo caso di tubercolosi nel carcere di Sulmona, dopo che nei giorni scorsi un altro caso di legionellosi aveva messo in allarme il personale e gli stessi reclusi, esposti quotidianamente a malattie considerate “d’altri tempi e d’altri luoghi”, lontani dalla “civilissima” Italia.
Sembra che la situazione sia sotto controllo, anche se il rischio infezione è reale.
“Per evitare qualsiasi tipo di contagio - ha affermato Mauro Nardella di Uil Penitenziari - si e' provveduto anche a sottoporre a screening le persone che in un modo o nell'altro sono venute a contatto con il detenuto affetto dalla patologia. Il tutto in attesa di ricevere indicazioni dall'autorità sanitaria circa la possibilità di estendere i controlli anche nei confronti delle unità che hanno partecipato e che tuttora partecipano al piantonamento dello stesso presso l'ospedale dove risulta ricoverato”.
Secondo il XIV^ Congresso Nazionale della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria-Onlus, svoltosi lo scorso giugno, “nonostante i progressi fatti nel trattamento della Tubercolosi (TB), questa resta il maggiore problema di salute in tutte le prigioni europee e anche se è considerata una malattia largamente curabile”.
Il tasso di incidenza della tubercolosi nelle carceri è significativo. “Casi di TB sono statisticamente superiori a quelle che ci sono nel mondo libero, al pari di altre malattie infettive – ci ha spiegato al telefono Patrizio Gonnella, Presidente dell’Associazione Antigone - in particolare le epatiti A,B e C che sono uno dei più gravi problemi sanitari all’interno dell’istituzione penitenziaria”.
Ma quali sono gli elementi di rischio che determinano la diffusione della tubercolosi nelle carceri?
Prima di tutto il sovraffollamento, ma anche l’ elevata concentrazione di portatori di TB. Sono aumentati infatti, negli ultimi anni, i detenuti che arrivano da paesi dove la presenza di tubercolosi è ai picchi: cittadini stranieri che provengono soprattutto da Europa orientale, America meridionale e Africa sub sahariana, aree in cui il problema è emerso negli ultimi venticinque anni.
Incidono notevolmente anche altri fattori come la scarsa ventilazione in ambienti piccoli e chiusi, le cattive condizioni igieniche, la scarsa mobilità dei detenuti e la diffusa malnutrizione.
Oltre alle condizioni carcerarie, per Gonnella c’è anche un altro fattore che determina il diffondersi delle malattie: “Sicuramente il problema delle malattie in carcere è anche frutto di uno stile di vita a rischio precedente al carcere. Lo stile di vita precedente e la condizione sociale di provenienza significano non essersi mai controllati, non aver mai fatto un percorso di prevenzione primaria o secondaria e infine aver vissuto in condizioni di degrado urbano e sociale”.
Inoltre, “soprattutto negli anni precedenti, nelle carceri c’era una presenza significativa di detenuti con la sindrome dell’HIV, - ricorda Gonnella - che significava da un lato doverli preservare dall’etichettamento, dall’altro evitare la diffusione del contagio”. I soggetti già affetti da HIV o immunodepressi sono chiaramente più esposti al contagio della tubercolosi. In altre parole, le condizioni di vita nelle carceri condannano molti detenuti alla malattia.
Il contagio infatti è interumano e si trasmette per “via aerea”, con la tosse, il parlare, gli starnuti. Condizioni che sono frequenti tra persone che vivono insieme in ambienti così stretti e disagiati.
Le patologie che colpiscono i detenuti influiscono anche sul personale e le loro famiglie. Affinché il personale penitenziario non si senta abbandonato dalle istituzioni, è necessario che vengano introdotte nel carcere figure sanitarie come medici, infermieri, psicologi che agiscano con campagne di prevenzione prima che sia troppo tardi.
“Il carcere potrebbe essere una risorsa se si investissero energie.- spiega Patrizio Gonnella - Un fantastico luogo di prevenzione, perché se hai a disposizione 66mila persone che sono costrette a stare in galera, possono essere controllate con screening e sistemi che permettono di fare prevenzione per tutta la popolazione che è fuori”.
Il bollettino di guerra sulle morti in carcere ce lo fornisce Gonnella. “Anche quest’anno si stanno registrando tanti suicidi da far pensare che manterremo la media di 55-65 morti 'volontarie' oltre ai i160-180 morti l’anno per cause 'altre', con una media leggermente superiore a quella europea”.
“Le persone che decidono di ammazzarsi compiono atti di disperazione individuale e anche collettiva. I detenuti sono ridotti a numero e nessuno si rende conto che sono persone.- continua Gonnella - Un detenuto dovrebbe avere la possibilità di telefonare ad un parente, quando ne ha bisogno non quando c’è l’operatore. Se tre minuti prima di porre fine alla sua vita, un detenuto potesse almeno avere una telefonata di conforto da un amico o un figlio, forse si potrebbe salvare”.
L’Art. 27 della Costituzione stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
La nostra Carta fondamentale ricorda anche che “non è ammessa la pena di morte”, anche se poi l’Italia tace sulle morti innocenti che si consumano nelle “discariche sociali” che sono diventate le prigioni italiane. Dalle carceri si misura il grado di civiltà di una nazione, e anche la sua umanità.