Un altro tassello del centro storico torna al suo posto.
Ieri pomeriggio, nel cortile di palazzo Carli Benedetti (via Accursio 17), si è tenuta la presentazione del volume Terremoti e resilienza nell’architettura aquilana scritto dall’architetto Carla Bartolomucci.
Il volume, pubblicato dalla casa editrice Quasar, è dedicato proprio al restauro del palazzo - il sottotitolo infatti è: Persistenze, trasformazioni e restauro del palazzo Carli Benedetti - costruito nella seconda metà del Quattrocento dalla nobile famiglia dei conti Carli, e racchiude un lavoro di studio e ricerca avviato già prima del terremoto del 2009.
In esso vengono ricostruite la storia dell’edificio, la situazione del danno dopo il sisma e tutta la fase dei lavori.
Oltre all’autrice, ricercatrice al Cnr, specializzata in restauro dei monumenti e conservazione dei beni architettonici, sono intervenuti anche Donatella Fiorani dell’Università La Sapienza; Simonetta Ciranna dell’Università dell’Aquila; e Antonio Di Stefano della Soprintendenza.
Al termine della discussione, si è tenuto anche un concerto, organizzato dalla società Barattelli, dal titolo Gli strumenti dello studiolo e la musica segreta di Palazzo Carli Benedetti, con Goffredo Degli Esposti, Filippo Calandra, Giordano Ceccotti, Giacomo Silvestri. L'esibizione sarà preceduta da un’introduzione del musicologo Francesco Zimei.
Architetto, qual è la storia di questo palazzo?
Il palazzo è legato a personaggi storici importanti per la città, ma la sua storia costruttiva finora era poco nota; fu costruito nella seconda metà del Quattrocento dalla nobile famiglia dei conti Carli (la stessa che edificò nel Settecento l’imponente palazzo Carli presso l’Annunziata, sede dell’Università fino al 2009). Gli storici attribuiscono il palazzo a Giacomo Carli (definito banchiere e ambasciatore del re) e al noto artista Silvestro Aquilano (architetto, scultore, pittore), che realizzò in città opere importantissime (tra cui il sepolcro del cardinale Agnifili nella Cattedrale, quello di Maria Pereyra Camponeschi nella basilica di San Bernardino, il monumento sepolcrale del Santo stesso, incompiuto a causa della sua morte nel 1504). Silvestro ha lasciato in questo edificio evidenti segni della sua opera, ma in realtà la costruzione del palazzo iniziò ben prima e fu probabilmente interrotta dal terremoto del 1461, per poi riprendere con un progetto nuovo. Nel libro sono descritti gli elementi alla base di questa ipotesi e le anomalie che documentano le fasi costruttive diverse, dagli edifici preesistenti (medievali) su cui è fondato il palazzo, alle ristrutturazioni successive conseguenti ai cambiamenti di proprietà e alla complessa storia sismica della città. A partire dalla seconda metà del Seicento il palazzo fu acquisito dalle Celestine dell’adiacente monastero di Santa Maria dei Raccomandati; queste dapprima lo collegarono al complesso monastico (chiudendo la strada compresa tra i due edifici), poi lo ristrutturarono dopo il terremoto del 1703 suddividendolo in appartamenti. Dopo la soppressione ottocentesca del monastero, il palazzo divenne proprietà di Antonio Benedetti (anch’egli un personaggio noto nella storia della città) che introdusse alcune modifiche (tra queste il nuovo portale, sostituito probabilmente per motivi simbolici - come era avvenuto già secoli prima a Collemaggio) e ne cambiò il nome. L’edificio, infatti, era conosciuto come ‘palazzo Benedetti’ fino a tempi recenti e solo alla fine del Novecento gli fu restituito il nome dei primi committenti. Oggi la doppia denominazione testimonia la sua complessa storia costruttiva e conservativa, approfondita in occasione del recente restauro e raccontata nel libro.
Quanti e quali erano i danni causati dal terremoto?
Il terremoto ha causato danni importanti, tra cui il crollo di una parte del loggiato nel cortile (la tamponatura settecentesca del piano superiore), ma nel complesso l’edificio ha mostrato una buona resistenza. Alcuni cedimenti localizzati sono stati dovuti perlopiù a vulnerabilità introdotte successivamente (spesso a causa della realizzazione di impianti, come osservato spesso anche in altri edifici); per esempio la muratura dello scalone era indebolita dalla presenza di canne fumarie, che avevano inconsapevolmente interrotto alcuni archi di scarico scoperti durante i lavori. La situazione di danno, inoltre, presentava una singolare coerenza con le differenti fasi costruttive: praticamente nullo al livello inferiore (risalente alle preesistenze medievali), di media gravità al livello del cortile (di epoca quattrocentesca), molto grave a livello superiore nonostante la ristrutturazione settecentesca abbia introdotto importanti accorgimenti antisismici (evidenziati durante i lavori), che sono risultati determinanti nel contenere i danni.
Parliamo del restauro: quanto sono costati i lavori e come si sono svolti?
Il libro documenta i lavori compiuti ‘rendendo conto’ anche degli aspetti economici; nei dati relativi alla contabilità dei lavori risulta evidente che le somme spese sono inferiori al contributo concesso. Questo perché, in fase di realizzazione, il progetto ha dovuto adattarsi alle situazioni effettivamente riscontrate, in parte diverse da quanto ipotizzato inizialmente. In linea generale, si può dire (ma non sono io a dirlo, lo hanno detto persone ben più autorevoli di me!) che la conoscenza approfondita di un edificio consente di limitare le indagini diagnostico-conoscitive allo stretto indispensabile. Inoltre, l’approccio del restauro è quello di contenere l’intervento al minimo necessario per non stravolgere l’edificio con operazioni che, talvolta, si sono rivelate inefficaci o dannose.
Il libro parla di ‘resilienza’, un termine che, negli ultimi tempi, è stato usato molto e non sempre a proposito. Che significato gli si dà nel libro, almeno in relazione all’architettura storica?
L’architettura storica è di per sé un esempio di resilienza, un ‘documento materiale’ del suo attraversare i secoli e di come la complessa storia sismica del nostro territorio abbia lasciato segni importanti, che è essenziale capire, conservare e trasmettere.
Le cronache relative ai terremoti (sia antiche, sia recenti) narrano perlopiù di complete distruzioni, di ‘ricostruzioni’ ex-novo, ma la realtà è ben diversa: gli edifici storici testimoniano infatti la permanenza di strutture, elementi costruttivi e figurativi, materiali (autentici!) di molti secoli fa, che sono arrivati fino a noi e sussistono ancora oggi (quando non vengono distrutti da interventi inconsapevoli).
Durante i lavori ci sono stati ritrovamenti interessanti. Vuole parlarcene?
Uno dei ritrovamenti è quello relativo ai ‘dipinti musicali’ che ho scoperto durante i lavori osservando alcune tracce affiorate attraverso le lesioni murarie sotto un solaio. I dipinti erano coperti da uno scialbo di calce che li nascondeva appena; già dai primi saggi sono emersi gli spartiti con le note dipinte, poi i simboli (uno stemma, le aquile, i pavoni che rappresentavano la famiglia Carli) e una serie di strumenti musicali di vario tipo raffigurati su tutte le pareti. Il luogo dove si trovano i dipinti è decisamente singolare: lo spazio sottostante il solaio era rimasto chiuso in seguito alla ristrutturazione dell’ambiente inferiore, che doveva essere stato lo ‘studiolo’ musicale dei Carli ai primi del Cinquecento. Esso fu suddiviso e ribassato con due voltine (anch’esse dipinte), probabilmente quando il palazzo passò di proprietà alle monache. Il quadro fessurativo sulle pareti era di particolare interesse, poiché alcune lesioni erano già state riparate in tempi remoti (una, in particolare, attraversava uno spartito musicale) mentre altre non erano mai state toccate, pur non essendo recenti; anche questo ha contribuito alla datazione dell’opera, che dal punto di vista musicologico è stata studiata da Francesco Zimei (al quale mandai subito una foto degli spartiti). Ma i dipinti musicali sono solo una delle scoperte…nel libro ne sono descritte altre, che raccontano le permanenze e le trasformazioni del palazzo attraverso i secoli. Alcuni importanti elementi furono nascosti da interventi successivi come controsoffittature, tamponature o imbiancature diffuse; probabilmente molti sono andati perduti, a causa di interventi che hanno intaccato le strutture, alterando la spazialità precedente e sostituendo gli intonaci. In particolare, diverse decorazioni pittoriche sono riemerse sulle murature, e non solo in luoghi inaccessibili (come nel caso precedente). Per esempio, sul fronte laterale del palazzo sono riemerse labili tracce di una Madonna dipinta di cui si ignorava l’esistenza, probabilmente risalente alla seconda metà del Quattrocento. Forse costituiva un ‘ex voto’ dopo il terremoto del 1461; analogamente, un’altra Madonna in stucco (entrambe sono raffigurate con il Bambino) è posta poco lontano, accanto ad uno sperone settecentesco.
Quando si parla di architettura storica ci sono in ballo due necessità: rendere gli edifici più sicuri da un punto di vista antisismico salvaguardando contemporaneamente le loro caratteristiche storiche, senza snaturarle o cancellarle con interventi incongrui. Come si conciliano queste due esigenze?
In generale, sicurezza e conservazione vengono viste spesso (erroneamente!) come obiettivi contrapposti e, in nome della sicurezza, sono stati realizzati interventi che poi si sono rivelati molto dannosi (lo abbiamo visto nei recenti terremoti). La riduzione della vulnerabilità sismica deve essere valutata, invece, nel quadro generale della conservazione dell’edificio e del suo comportamento strutturale, quindi rinforzandolo e assicurandone il funzionamento senza stravolgerlo. È questo il principio alla base del ‘miglioramento’ che del tutto impropriamente alcuni considerano meno efficace (forse perché difficilmente valutabile in termini quantitativi).
È bene chiarire, però, il concetto di ‘antisismico’ sul quale c’è poca chiarezza e molte speculazioni: è definito tale un edificio che, pur danneggiandosi, consente agli occupanti di mettersi in salvo. In base a questa definizione (che ho appreso di recente in un seminario internazionale sul tema), sarebbe il caso di riesaminare il diffuso e generalizzato pregiudizio di inadeguatezza dell’architettura storica.
Nel restauro di palazzo Carli Benedetti avete scelto di conservare le tracce delle stratificazioni storiche depositate sull’edificio e di non sostituire gli intonaci storici e i materiali autentici. È un approccio diverso da quello che invece è stato adottato per molti altri edifici storici dell’Aquila, nei quali, a seguito dei lavori, oggi si vedono colori scintillanti.
La questione va ben oltre i ‘colori scintillanti’ (forse maggiormente evidenti nelle periferie, dato che nel centro storico c’è un maggiore controllo sugli aspetti cromatici); piuttosto, si osserva sulle superfici architettoniche una volontà di rinnovamento talvolta portata agli estremi. Per esempio, la sostituzione generalizzata degli intonaci - come pure le puliture estreme dei materiali lapidei - sono operazioni compiute diffusamente come se fossero banali e inevitabili atti di manutenzione, ma entrambi comportano esiti assai sfiguranti. Oltre a distruggere importanti testimonianze materiali, ne risulta alterata la percezione dell’architettura e compromessa la sua autenticità. Eppure nell’ambito del restauro già da decenni questo è un tema di grande interesse, ma la prassi appare ancora ben lontana da questi orientamenti. Pur ammettendo che ci siano motivi psicologici volti a ‘rimuovere’ le tracce dell’evento traumatico, la cancellazione dei segni del tempo e degli accadimenti trascorsi costituisce di per sé un atto anticulturale, che va contro la nostra stessa storia.
Le foto della fotogallery sono di Carla Bartolomucci, che ringraziamo per la gentile concessione.