Venerdì, 05 Aprile 2019 16:27

Decennale, lettera aperta del sindaco dell'Aquila Pierluigi Biondi

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Pubblichiamo un intervento/lettera aperta del sindaco dell'Aquila, Pierluigi Biondi, a dieci anni dal terremoto.

In questi giorni L'Aquila è letteralmente invasa dalla stampa italiana ed estera. Quotidianamente sto rilasciando interviste, rispondendo a domande che suonano più o meno così: a che punto è la città, come sono passati questi dieci anni, che cosa vedo nel futuro della mia gente. Come me, sono stati interrogati uomini e donne che nella tragedia e negli anni sono diventati un po' il simbolo del terremoto: giornalisti, commercianti, i nostri "ribelli", gli aquilani lottatori.

Iniziano, e continuano, a uscire le pubblicazioni, i servizi televisivi e radiofonici, reportage di quotidiani e riviste periodiche.

Cosa viene fuori della nostra città, che uso si fa delle nostre storie e, soprattutto, del nostro coraggio e delle nostre battaglie quotidiane?

Le foto che vanno per la maggiore sono quelle che ci fanno più male e non le immagini della rinascita che festeggiamo sempre più di frequente. I colori preferiti sono il bianco e il nero. Le ore sono quelle del buio. Musicate dal silenzio, dal compiaciuto rumore dei passi, rimbombati e scricchiolanti sulla ghiaia.

Nel quadro, una terra abbandonata, dagli stessi aquilani, intorpidita. Noi come formiche annaspanti e traballanti nell'emergenza.

Che L'Aquila sia una questione nazionale di cui occuparsi, è assodato. Anche che sia un'emergenza, nella misura in cui è lo specchio di un Paese fragile, che va gestito con grande cautela e sapienza nelle costruzioni pubbliche e private.

Ma non lo è se assume i tratti di una landa desolata, popolata di disperati, folli che hanno perso la fiducia. La narrazione è ingenerosa, in alcuni casi addirittura falsa.

Per carità, la denuncia non può essere taciuta. È la stessa che quotidianamente viene sottoposta ai nostri uffici: dal centro che deve rinascere, agli incentivi insufficienti, alla farraginosità delle procedure, all'indifferenza.

Voci che ascolto, questioni su cui lavoro e per cui chiedo alla politica nazionale di non girarsi dall'altro lato, ma con convinzione di sposare il nostro progetto e il sogno di un luogo fatto di persone, non solo di case.

Vorrei dire al mondo, ai giornalisti stranieri, e poi a quelli di casa nostra, che ci sono i dati, oggettivi: li si può interpretare come un "investimento" sproporzionato per qualcosa che oggi appare "vuoto" e offeso dalla lentezza della burocrazia o da mancata lungimiranza. O li si può guardare bene e meglio e leggerli come la sfida del cantiere più grande d'Europa, che non è solo incartato dai ponteggi e annebbiato dalle polveri: è il bianco marmo della basilica di Collemaggio, il fresco verde del Parco del sole, l'arcobaleno dell'energia creativa culturale, dell'innovazione e della ricerca.

Il sacrificio che ciascuno di noi, con la sua scommessa personale, sta affrontando, spesso con dolore e sconforto o gioendo in maniera condivisa, non può essere derubricato a vergogna nazionale, senza appello.

L'opinione pubblica non può essere scandalizzata con il collage a effetto delle immagini di ciò che non va, che si fa prima a dimenticare (perché, chi vuole avere paura?). Le persone devono essere guidate anche alle immagini della rinascita.

Quelle che in questi giorni non vedo, perché chi racconta oggi casualmente, qui, in questi dieci anni, non c'è stato, non lo sa che vuol dire aver vissuto ed essere rimasti all'Aquila.

Dobbiamo trovare il coraggio di dire che siamo in rigenerazione, e non solo coltivando la disperazione.

Nessuno di noi può permettersi che il dolore della perdita, che mai potrà essere taciuta o edulcorata, sia relegato all'ineluttabilità. Bisogna attribuirgli un senso. E capisco bene quanto sia facile pensarci al confine e lontani, ma siamo un fatto italiano, reale.

L'Aquila è un patrimonio di tutti. Di speranza, soprattutto. Siamo qualcosa da vedere e toccare con mano. Qualcosa di cui innamorarsi, qualcosa da tornare a vedere per accorgersi che cambia pelle continuamente e che, no, non è vero che siamo sempre uguali se, mai dal 1908 e 1915, ci fu tragedia più devastante.

Se mai una città è stata abbattuta e poi ricostruita. Se sono solo 7 anni - perché questo è il tempo trascorso dalla fine dell'emergenza - che la ricostruzione è iniziata.

Nel tempo del tutto e subito e delle ricerche su Google per inghiottire informazione, beh, vi dico che la ricostruzione è una cosa seria, che necessita dei suoi tempi perché sia condotta a termine in maniera esemplare. Perché noi vogliamo essere migliori.

Vogliamo che sia fatto tutto per bene. Al netto degli errori umani che un simile avvenimento, e relative conseguenze, inevitabilmente comporta. L'avete mai ricostruito un capoluogo di regione?

Insomma, non si può raccontare solo la città ferita, si deve raccontare anche la città rimarginata. E non un giorno all'anno.

E, scusate, se capita di prendere cantonate. Noi, qui, ci siamo tutti i giorni e, seppure sbagliamo, non giriamo le spalle per tornare in una nuova città, a una vita normale, a nuovi racconti.

Siamo qui a riprovarci, a fare la nostra storia. Siamo un popolo speciale. E la volta dopo ci viene meglio. Ed è questo che vorrei che raccontaste. Ed è anche questo che gli italiani dovrebbero vedere. Non ci prendete in giro, non siamo al circo.

Siamo all'Aquila.

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