Lunedì, 20 Aprile 2020 17:08

Rossi (Anpas): "Emergenza nuova, al trauma si aggiunge stress da quarantena"

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Ad oggi sono più di 2.400.000 i casi accertati di Covid 19 nel mondo, 184 i paesi raggiunti. L'emergenza sanitaria ha costretto i governi di tutto il mondo a limitare la libertà di movimento delle persone con la quarantena e il lockdown. In Italia, dove stando agli ultimi dati i contagi accertati sono 181.228, in tal senso è entrato in vigore, lo scorso 11 marzo, il Decreto "Io resto a casa". Dopo 40 giorni di isolmento forzato la data a cui tutti guardano è quella del 4 maggio, che segnerà l'inizio della cosiddetta Fase due. Un Comitato di esperti in campo economico e sociale guidato da Colao sta elaborando le misure necessarie per una ripresa graduale delle attività economiche, produttive e sociali. Al momento non sono molto chiare le modalità del "passaggio". In un post pubblicato su Facebook, il premier ha affermato che il piano di riapertura sarà analizzato entro questo fine settimana. Conte ha inoltre anticipato che l'allentamento delle misure di contenimento del Coronavirus sarà commisurato alle possibilità e alle peculiarità di ciascuna Regione, tenendo conto di numerosi aspetti, come i flussi sui trasporti pubblici e la recettività delle strutture ospedaliere.

Ma quale sarà l'impatto del distanziamento sociale sulle relazioni sociali e sul benessere mentale? Molti esperti stanno evidenziando come la pandemia porti con sè una buona dose di ansia e stress. C'è da capire quali saranno gli effetti a lungo termine della quarantena e come la paura del contagio influenzerà la nostra socialità.

Ne abbiamo parlato con Maria Luisa Rossi, psicoterapeuta presso il consultorio Aied dell’Aquila e psicologa dell’Emergenza ANPAS. "Questa pandemia - ha affermato Rossi a newstown- porta con sé elementi che delineano di fatto una nuova emergenza", inedita anche per i professionisti che lavorano per fronteggiarla, come il personale sanitario e gli esperti. Gli strumenti acquisiti sul campo dagli psicologi dell'emergenza si sono rivelati inadeguati, impossibili da applicare in un contesto così ampio che coinvolge in egual misura soccorritori e vittime.

Inoltre, in questo caso, a minare la tenuta psicologica delle persone non sono solo le caratteristiche proprie dell'emergenza, ma anche le misure restrittive necessarie a contenerla. Anche l'informazione diffusa dai canali ufficiali ne ha dovuto tenere conto, assumendo un duplice compito: diffondere tra i cittadini un'idonea percezione del rischio e rendere più sopportabile la quarantena, fornendo quante più informazioni possibili per far comprendere la necessità di tali restrizioni. E anche in questo caso l'incertezza e la confusione sono state evidenti. "Come in ogni emergenza - chiarisce Rossi - il lavoro dei canali di comunicazione svolge un ruolo fondamentale sia nella percezione del rischio e del pericolo da parte della popolazione sia in merito alla diffusione delle informazioni utili alla gestione stessa della emergenza. A mio avviso, in questa situazione, la poca conoscenza del virus, dei suoi meccanismi di contagio e diffusione, delle ipotetiche cure, determinano una grande mole di dati e informazioni che anche quando arrivano dai canali ufficiali (ISS; AIFA; OMS; DPC ecc) presentano un elevato grado di incertezza. Ciò amplifica la confusione dei cittadini, spesso travolti da uno tsunami di notizie ingestibili che aumentano i dubbi,le paure e angosce".

Le caratteristiche inedite della pandemia di Covid-19, che "non ha confini geografici, non permette di delimitare un'area stravolta nella sua organizzazione urbana, sociale e nella sua struttura psicosociale" e in cui non esistono le cosiddette zone rosse, i luoghi cioè deputati al soccorso, ha costretto gli esperti a "ristrutturarsi per individuare procedure da attivare e i protocolli utili ad orientarsi. Affrontiamo - spiega Rossi - qualcosa che appartiene ad altri tempi, di cui nessuno di noi ha mai avuto esperienza. Molti, probabilmente, ne hanno qualche vago ricordo dai racconti dei nonni della Spagnola. Dal punto di vista psicologico, di percezione del rischio e di fronteggiamento dell’emergenza dobbiamo ammettere di esserne rimasti completamente spiazzati".

La minaccia, inoltre, è invisibile e la paura che ne deriva è molto più difficile da razionalizzare e gestire. "In riferimento all'esperienza del terremoto, la paura che ha accompagnato a lungo le popolazioni che ne sono state colpite si è trasformata in alcuni casi in un sentimento funzionale: al suo arrivo la scossa concretizza una paura irrazionale focalizzandola su qualcosa di reale, ponendola nel “fuori da sé”. Oggi non è così. Sono solo le conseguenze ad essere visibili: le immagini di corpi inermi dentro scafandri; sfilate di bare che vanno via senza poter essere onorate e congiunti che quasi sembrano scomparire senza poter essere salutati. La minaccia invece, il virus, non possiamo vederlo, ne percepiamo solo la presenza, ci costringe a misurarci profondamente con l’angoscia di morte, nostra, dei nostri cari, dei nostri soccorritori e dei medici che dovrebbero curarci. L’angoscia rimane tale, ci blocca, ci destruttura; non incontra mai il potere “trasformativo” della paura che quando si concretizza nell’oggetto che più temiamo, ci pone nella condizione/necessità di mettere in atto una qualche strategia che ci porti a salvarci la vita".

Sono venute meno, inoltre, le categorie di vittime e soccorritori, "una distinzione questa - sottolinea Rossi - che fungeva da elemento rassicurante per tutti. I soccorritori oggi sono consapevoli dei rischi cui sono esposti, non riescono più a mettere distanze, a uscire dall’emergenza; nel momento in cui tolgono l’habitus del soccorritore rimangono in quello che ci individua tutti come vittime, ugualmente costrette ad una riduzione della libertà che non sempre ci rassicura".

Sono proprio le persone impegnate a vario titolo a fronteggiare l'emergenza, secondo Rossi, a subire "maggiormente il carico emotivo di questa emergenza. Medici, infermieri, si sono trovati totalmente disarmati - non solo dal punto di vista sanitario ma anche da quello più strettamente psicologico - nella gestione in prima linea di questa emergenza. Tutto ciò costituisce un carico che, in “fase adrenalinica”, e cioè nel pieno dell’attività, senza quasi interruzioni, sono riusciti a reggere, ma ora, a quasi due mesi dal primo lockdown e con la minore pressione sanitaria probabilmente cominceremo a registrare i primi burnout e l’inizio dell’espressione sintomatologica e del disagio che questa situazione avrà generato. Ritengo ci dovremmo attrezzare a breve, non tanto come psicologi dell’emergenza ma più come clinici e terapeuti, ad accogliere e seguire questi uomini e queste donne".

Anche le reazioni psicologiche finora riscontrate tra la popolazione sono strettamente "legate a fattori fortemente caratterizzanti questa pandemia: innanzitutto il lungo tempo sospeso, l'impossibilità di indicare tempi congrui di uscita dall'emergenza. Ciò unito all’altro fattore caratterizzante l’emergenza Covid19, l’isolamento forzato e prolungato, contribuiscono a una destrutturazione delle certezze minime della quotidianità che ci assicurano un comportamento e un vissuto emotivo congrui alla realtà". Il coronavirus ha mandato in pezzi la nostra quotidianità e tra i sinotmi più diffusi compaiono "un acuirsi dei disturbi legati all’ansia a livelli importanti di destrutturazioni della persona in individui con una struttura di personalità che già presentava importanti elementi di fragilità. A ciò si aggiungano situazioni familiari spesso rese molto difficili, tese, genitori e figli adolescenti che vivono le normali crisi evolutive adolescenziali in una situazione di “cattività" tale da acuire confronti generazionali. Numerose, si veda l’elevarsi dei numeri di TSO su l’intero territorio nazionale, sono anche le riacutizzazioni di episodi di scompenso psicotico cui non giova la situazione di isolamento sociale in cui ci si ritrova; per non tralasciare poi in termini sociali le conseguenze della convivenza forzata in famiglie e coppie caratterizzate da una alta conflittualità interna".

Come difendersi dunque? Per la psicologa "dedicarsi alla cura di sé e dei propri spazi ci può aiutare a stare nel qui ed ora, proteggendoci dalla tendenza a proiettarci in un futuro che appare oltremodo lontano, indefinito e per nulla rassicurante. Non ultimo direi che può essere importante chiedere aiuto per gestire questo momento così difficile e complesso. Sono numerosi i servizi di assistenza psicologica alla popolazione attivati dai servizi Sanitari territoriali, vedi i dipartimenti di salute mentale e da numerosi terapeuti che hanno iniziato a svolgere il loro lavoro "online". Il momento in cui rivolgersi allo psicologo non è semplice da individuare in linea generale. Diciamo che ognuno di noi ha risorse interne, frutto non solo delle esperienze precedenti simili a quella che viviamo, ma anche delle proprie caratteristiche personali, di capacità di attivarsi in situazioni critiche, che ci permettono di ristrutturarci sia dal punto di vista razionale che emotivo più o meno in qualunque “nuova” situazione. Possiamo dire che laddove ci rendessimo conto direttamente o casomai, come spesso capita perché qualcuno a noi vicino ce lo fa notare, che stiamo facendo particolare fatica o resistenza a calarci nella nuova situazione o che la nostra risposta genera particolare ansia e disagio emotivo, rivolgersi ad una figura specialistica nello specifico ad una o uno psicoterapeuta sarebbe opportuno".

Anche l'uscita graduale dall'emergenza richiederà uno sforzo di adattamento. Molti parlano di una "nuova normalità" a cui dovremo abituarci, con il mantenimento di alcune misure di distanziamento, come il rispetto del metro di distanza, per ridurre il rischio di una nuova ondata di contagi. C'è da capire che impatto avrà questo nuovo modo di stare insieme e di vivere la socialità.

"Da quanto mi sembra di capire, nella Fase due di cui tanto si parla non ci sarà un improvviso ritorno allo status qua ante; è presumibile che arrivare a convivere con il virus significherà recuperare in maniera graduale spazi di movimento individuale e sociale. Il ritorno graduale alla normalità ci permetterà un adattamento altreattanto graduale. Abbiamo sperimentato, soprattutto nelle prime settimane di lockdown, quanto la percezione di una vicinanza e di un'unione che andassero ben oltre la separazione e il distanziamento fosse importante ad accettare più facilmente le misure restrittive e a resistere aldilà dello stress. Vero è, e attingo ancora una volta dal mio lavoro clinico, mi sembra che ora si faccia strada un'ansia sottile al pensiero che si avvicini il giorno della riapertura delle nostre porte; al pensiero di dover tornare a re incontrare l’altro vero, reale; al pensiero che dovremmo riabituarci alla co-presenza. Forse di nuovo sono saltati i nostri paradigmi di lettura della realtà? La condivisione reale che da una parte tanto ci manca, dall’altra ci pone un po’ di ansia, quasi il timore di non saper più come stare con l’altro. Almeno inizialmente nulla del nostro modo precedente di vivere la socialità, dalla passeggiata al parco con i nostri figli al solito pranzo con i colleghi, passando per il caffè al bar o la serata a teatro, sarà come prima; forse sarà un po’ come sbarcare con le nostre tute da astronauti su un nuovo pianeta, cercando di capire come adattarci a una nuova atmosfera, e come farci comprendere dagli altri disorientati quanto noi. Credo però che da animali sociali quali siamo, chi più chi meno e chi prima chi dopo, ci ristruttureremo intorno ad un nuovo modo di stare insieme; sicuramente faticheremo un po’ ad accettare ed includere nelle nostre dinamiche distanze sociali che non ci appartengono molto dal punto di vista socio culturale, ma forse, anche questa volta, sarà la nostra proverbiale flessibilità e capacità di adattamento a suggerirci le strategie migliori da attivare".

Ultima modifica il Martedì, 21 Aprile 2020 11:37

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