"I bambini riescono ad eliminare il virus più velocemente rispetto agli adulti; tuttavia, studi recenti hanno dimostrato che c’è un long covid anche per i bambini: studi in Russia evidenziano la persistenza dopo 5-6 mesi di sintomi importanti. Secondo un altro studio israeliano le fasce più colpite sono quelle da 0 a 9 anni e da 10 a 19 anni. I dati che abbiamo ci suggeriscono che il vaccino si può fare anche a loro, senza grossi effetti collaterali. I vantaggi della vaccinazione sono estremamente più importanti".
A sostenerlo è Alessandro Grimaldi, primario del reparto malattie infettive dell’ospedale “San Salvatore” dell’Aquila, che è intervenuto sabato scorso al convegno organizzato dal Rotary Club dal titolo “La pandemia, l’infanzia e la scuola”.
Nel suo intervento, Grimaldi ha posto l’accento sulle conseguenze del Covid e sull’importanza della prevenzione. Ha ripercorso le origini del virus, soffermandosi sulle conoscenze acquisite nei mesi della pandemia, a cominciare dai sintomi, dalle cure, dalle persone più colpite.
"È chiaro che uno degli argomenti degli ultimi tempi per tante persone è se il Covid fosse o meno un virus sfuggito da qualche laboratorio; debbo dire che in realtà quello che è successo negli ultimi anni nel mondo ha fatto in modo che fossimo diciamo preparati, cioè avevamo fatto già le prove generali della pandemia nel 2003 col virus della Sars e per fortuna siamo stati in grado di contenere l’epidemia. Purtroppo questa volta non ci siamo riusciti. Tra i fattori che favoriscono la diffusione di virus (perché non è certo solo il Covid, ce ne sono altri che circolano e che potenzialmente potrebbero anche dare vita ad altre pandemie), ci sono 'cattive' abitudini in alcune parti del mondo, ad esempio i wet market dove si commerciano tranquillamente i pipistrelli, per non parlare della deforestazione, perché chiaramente ci sono delle realtà dove obiettivamente sono confinati degli animali che sono dei serbatoio di virus".
Le origini ormai le sappiamo: il parente molto stretto del virus è stato trovato di recente in alcuni pipistrelli in Laos, quindi è un virus di origine animale. "Come sappiamo il virus muta", ha proseguito Grimaldi; "nel lavoro di studio che abbiamo condotto con i colleghi dello Zooprofilattico si è visto che già nel passaggio dalla Cina all’Europa il virus era mutato e quindi era diverso rispetto a quello che era partito da Wuhan. Sappiamo benissimo che si diffonde molto di più in ambienti chiusi: per questo, è importantissimo mantenere sempre un certo livello areazione; ciò abbatte di molto la possibilità di contagio. Meno importante il contatto, anche se il virus può resistere su alcune superfici 4-5 giorni".
Inizialmente il Covid si presenta come un’infezione virale: il vero problema è che non si autolimita bensì innesca una reazione infiammatoria dell’organismo generalizzata, che colpisce organi e apparati. "Abbiamo dei parametri da laboratorio che potrebbero predire la possibilità di un’infezione. Con alcuni colleghi dell’ospedale e con la professoressa Balzano abbiamo studiato la possibilità che alcuni pazienti peggiorino perché hanno determinati parametri che portano ad un’evoluzione peggiore della malattia. Soprattutto nei pazienti anziani, è probabile che la reazione infiammatoria sia favorita dalla presenza di alcuni anticorpi che, in qualche modo, danno un’evoluzione sfavorevole della malattia. C’è una predisposizione dovuta ad anticorpi con un fattore protettivo e predettivo; ci sono fattori non genetici, legati alle abitudini di vita, come il fumo, l’età, l’obesità; c’è inoltre una differenza tra maschi e femmine: i maschi subiscono di più il covid, come malattia in fase acuta, però le donne sviluppano maggiormente il Long Covid”.
L’età è sicuramente un fattore importante. Le persone che si ammalano gravemente sono prevalentemente le persone anziane; "nello studio fatto con il professor Ferri si vede come, ad esempio, l’insufficienza respiratoria cronica, l’insufficienza renale e il diabete siano tre fattori che pesano molto nell’evoluzione della malattia. L’immunosopressione può pesare come fattore importante di trasmissione del virus, nel senso che il paziente immunodepresso, il paziente che fa la chemioterapia sostanzialmente è più vulnerabile all’infezione".
È chiaro che la presentazione clinica del Covid varia da un caso all'altro: può presentarsi come una malattia lieve o con forme molto gravi; "nelle fasi più acute ci può essere un’insufficienza multiorganica. In alcuni prevalgono sintomi respiratori, ma non è detto non prevalgano sintomi cardiaci, danni a carico del rene, danni al carico del fegato o danni a carico del sistema nervoso. L’esito per cui abbiamo imparato a conoscere il virus è soprattutto la polmonite; ci sono, però, anche manifestazioni cardiovascolari che vanno dall’infarto del miocardio alle aritmie. Ci sono pazienti che riportano malattie renali importanti con conseguenze che persistono in maniera permanente, così come ci sono manifestazioni a carico del sistema nervoso, manifestazioni cutanee".
Per questo, è importante anche personalizzare le terapie; non tutti i pazienti sono uguali. "Il cortisone non andrebbe usato nella prima fase della malattia, deprime le difese immunitarie e favorisce la replica del virus. Va utilizzato quando comincia a deteriorarsi la funzionalità respiratoria; a noi ha dato una grande mano e non escludo che sia stato uno di quei farmaci decisivi quando avevamo poco o nulla per prevenire l’infiammazione. Vale lo stesso per l’eparina. Poi ci sono quei farmaci che possono bloccare la replicazione del virus in fase iniziale, come il remdesivir, un inibitore della polimerasi che abbiamo ereditato dalla ricerca sull’Ebola. In fase precoce, blocca il virus ed evita la cascata citoclinica che poi genera un’infiammazione diffusa".
Qual è il limite degli antivirali che abbiamo ereditato dall'esperienza su alcune infezioni? "Gli antivirali nel tempo generano resistenze; arriveremo a fare un cocktail di antivirali, proprio per questo l’industria si è mossa, sta investendo e ci sono questi farmaci".