Domenica, 28 Luglio 2013 02:09

Forever Young. Il rocker canadese incanta gli 8 mila delle Capannelle

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Per la seconda data italiana dell'Alchemy Tour 2013, dopo Lucca Neil Young, accompagnato dai fedeli Crazy Horse (la formazione storica: Frank “Poncho” Sampedro alla chitarra, Billy Talbot al basso e Ralph Molina alla batteria) ha fatto tappa nella capitale per il festival Rock in Roma. Due settimane dopo il concerto di Bruce Springsteen e della E Street Band, l'ippodromo delle Capannelle è tornato dunque a ospitare l'esibizione di uno dei monumenti viventi del rock'n'roll.

Appellativo, quest'ultimo, che probabilmente piacerebbe poco al diretto interessato. Come scrisse molti anni fa il giornalista statunitense Steve Erickson in un articolo poi comparso nel libro di Nick Hornby Rock, pop, jazz & altro, durante la sua carriera Neil Young «ha sempre dato la netta impressione di un uomo in fuga dal suo posto nella storia della musica».

La storia del sessantottenne rocker canadese (è nato a Toronto nel 1945) è infatti una carrellata di colpi di testa e sbalzi di umore, di vette sublimi e rovinose cadute, di ascese nello stardom del rock seguite da ostinati e il più delle volte riusciti tentativi di affossare e fare a pezzi il suo stesso mito. Come quando, negli anni Ottanta, fu licenziato dalla Geffen, all'epoca la sua casa discografica, per aver realizzato una serie di dischi “non abbastanza rappresentativi del suo stile”, non all'altezza della sua fama.

Lungo tutta la sua vita, Neil Young ha insistito sulla libertà di saltare da un estremo all'altro in totale spregio per ogni considerazione carrieristica e reagendo solo all'istinto del momento, anche al più bizzarro. La sua parabola artistica è stata una cavalcata accidentata e piena di imprevisti, simile alle convulsioni chitarristiche delle tiratissime jam in cui il Nostro è solito lanciarsi sul palco insieme ai suoi Crazy Horse.

«Nel Young» ha scritto il suo massimo esegeta italiano, Marco Denti «ha fatto del mimetismo un arte sublime perché, nascondendosi di volta in volta dietro una maschera diversa, è diventato ed è rimasto se stesso […] vale a dire un incallito e indomito sognatore»

Chi venerdì ha assistito al concerto romano ha avuto l'ennesima riconferma del carattere indomito e poco incline al compromesso di Young, in questo fedele fino alla fine al destino racchiuso nel nome scelto per la sua band: Crazy Horse, Cavallo Pazzo, come il celebre capo della nazione indiana dei Lakota (evocato, durante il concerto, attraverso un enorme icona stilizzata rappresentante un “indiano” a cavallo sistemata come fondale del palco).

Nelle due ore di show, il loner canadese ha messo su una scaletta avvincente ma con poche concessioni alle attese del pubblico: un solo pezzo da Harvest, il suo disco più famoso e venduto (una versione di Heart of gold per voce e chitarra acustica), nessuno da After the gold rush, On the beach o Tonight's the night, gli album considerati, da critici e fan, i suoi capolavori.

Eppure il concerto ha saputo dispensare momenti di straordinaria intensità: una cover acustica di Blowin' in the wind di Bob Dylan, una Rockin' in the free world potente e abrasiva (e prolungata oltremisura attraverso due reprise del ritornello), una Sedan Delivery furiosa e quasi punk, un bis da manuale con Cortez the killer e Cinnamon Girl, due canzoni fra le più rappresentative dell'ormai infinito catalogo younghiano. La prima, un'invettiva contro il più spietato dei conquistadores spagnoli, conserva ancora intatta tutta la sua dolente magnificenza mentre la seconda ha uno dei riff più famosi della storia del rock.

Memorabile anche l'uno-due iniziale, con Love and only love (da Ragged Glory) e Powderfinger (da Rust never sleeps). In mezzo, tra l'incipit e il bis, hanno sfilato molti brani dell'ultimo disco, Psycheledic Pill, un mastodonte (doppio cd, triplo vinile) paragonabile ai classici conclamati citati poc'anzi.

Quello eretto dai Crazy Horse è un vero e proprio muro di suono, un vortice primitivo, primordiale, in cui si mescolano rock, folk, country, blues, psichedelia, grunge (sì, proprio così, grunge). Un caos organizzato, un assalto al calor bianco, in cui le chitarre effettate e le colate laviche dei feedback producono un sound furioso, peculiare, indefinibile, un rombo somigliante a una tempesta nel deserto, con tanto di lampi e fulmini rappresentati dalle scariche elettriche della Gibson Les Paul di Young, la mitica “Old Black”, che tutti i fan conoscono bene.

«Adoro andare oltre il muro, oltre la fine delle note» ha detto una volta l'ex Buffalo Springfield «E' l'altro versante, dove ci sono solo tonalità, suono, atmosfera, paesaggi, terremoti, immagini, fuochi artificiali, il cielo che si apre, gli edifici che crollano, metropolitane che collassano. Quando arrivi dall'altro versante non puoi più tornare indietro».

Anche la voce non sembra aver patito lo scorrere del tempo. Quella voce inconfondibile, così apparentemente sgraziata eppure così fragile e in grado di toccare le corde più profonde dell'animo degli ascoltatori.

Ha scritto Jon Savage: «Come Dylan, Young è uno dei grandi non-cantanti che hanno definito i termini della vocalità rock: la limitazione trascesa attraverso una chiara conoscenza della limitazione stessa e un bruciante desiderio di comunicare».

Savage, un giornalista inglese, è uno dei massimi esperti al mondo del (non) movimento punk. Un mondo, quest'ultimo, apparentemente agli antipodi rispetto ai sentieri normalmente battuti dal grande canadese. Eppure, alla fine degli anni Settanta, quando le icone del rock cadevano una dopo l'altra, spazzate via dal ciclone innescato dai Ramones e dai Sex Pistols, Young fu l'unico artista, fra quelli emersi nel decennio precedente, che non soltanto venne risparmiato dalla rivoluzione ma fu addirittura abbracciato come uno spirito affine.

Anche alla soglia dei settant'anni, Neil Young non ha dunque nessuna intenzione di svendersi, di trasformare lo spirito sanguigno del rock in un prodotto ben confezionato e di facile consumo. Il canadese, in fondo, è rimasto quel che è sempre stato, un concentrato di ossimori: un artista di delicatezza brutale, di consumata ingenuità, di ingannevole quanto complessa semplicità. Un folksinger al massimo dei decibel, un icononoclasta immerso fino al collo nella tradizione.

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