In questi giorni, fino al 2 settembre, si sta svolgendo tra il Palezzetto dei Nobili e l'Oratorio San Giuseppe dei Minimi la prima mostra personale a L'Aquila dell'artista concettuale Piotr Hanzelewicz, Opus Fragile.
Nato a Lodz, in Polonia nel 1978, Hanzelewicz si è laureato prima in Musicoterapia nel suo Paese per poi trasferirsi a L'Aquila dove ha preso la laurea in Grafica d'arte e Progettazione presso l'Accademia di Belle Arti.
Durante il vernissage NewsTown ha incontrato l'artista per comprendere meglio il suo complesso processo creativo che si completa grazie alla partecipazione di un pubblico che così diventa anche cittadinanza.
Come nasce "Opus Fragile"?
Opus nasce dall'invito che ho ricevuto da Germana Galli, presidente dell'associazione "Amici dei Musei", e Antonella Musi, curatore della mostra, per partecipare ad un progetto sull'Aquila nel periodo della Perdonanza Celestiniana.
Il lavoro è dedicato a un problema che riguarda tutti noi: la difficoltà di mettere insieme volontà e impegno per reagire a una situazione di difficoltà, creata dallo sconvolgimento di un ordine preesistente. Per riflettere su questa condizione umana, L'Aquila è una città "privilegiata" poiché il terremoto, che l'ha devastata, ha creato di conseguenza un estremo disordine.
Quando l'ordine da noi imposto viene stravolto da eventi inaspettati e fuori dal nostro controllo - come possono essere le calamità naturali - dobbiamo porre rimedio. E questa soluzione si materializza con immagini forti. Mi viene in mente per esempio quella del colonnato della basilica di Collemaggio, costretto da quelle cinghie gialle. Oltre all'aspetto visivo, poi, ci sono tutta una serie di altre conseguenze di carattere burocratico come l'agibilità della Basilica, che rimarrà chiusa salvo che in particolari giorni di cerimonia con le conseguenti polemiche sorte in questi giorni. Per non parlare del prato antistante, che non potrà essere calpestato fino al 28 agosto, ma sul quale - dopo la sfilata, ovviamente - dovranno passare tutti, per andare a chiedere perdono. Forse per aver calpestato il prato.
Un ordine imposto, dunque, che risulta fragile.
Inevitabilmente. L'idea di ordine che noi abbiamo è dovuta a delle convenzioni e dai sistemi che ci imponiamo. L'architettura stessa è espressione di una data cultura. Le costruzioni sono anche delle costrizioni, d'altronde l'architettura è un tentativo di "imbrigliare" la natura.
Se fossimo degli osservatori privi di emozioni, potremmo dire che L'Aquila, con i suoi puntellamenti, è divenuta una gigantesca installazione di arte contemporanea. Ogni lunetta o porta della città è ingentilita o abbrutita da questi legni, delle vere e proprie strutture di alta falegnameria che le decorano, con un impatto estetico forte. Lo stesso vale per le colonne, contenute dalle cinghie. Ed ecco che l'ordine sovrapposto al disordine crea un effetto interessante, proprio perché non funziona fino in fondo. Si tratta di uno stato di sospensione, come per dire "vediamo, aspettiamo cosa succede", poi quando e come non si sa.
E' proprio in questa incapacità di reagire che risiede la fragilità del processo, dell' "opus". Lo affronto nell'ultimo tassello del percorso espositivo, nell'Oratorio di San Giuseppe dei Minimi. Si tratta di una mia tautologia dell'incisione Melancolia I di Durer, nella quale è presente una figura umana crucciata. Stava realizzando qualcosa, ma si è bloccata, tutti gli attrezzi sono a terra e non riesce a continuare il lavoro. Questo succede perché non c'è un rito che dia un senso a quanto accade: l'uomo è completamente abbandonato a sé stesso nel passaggio da un ordine a un disordine, e quindi a un altro ordine.
Nella mostra c'è anche un'altra opera,nella quale – a differenza dell'altra - ci sono invece due movimenti: uno che parte dal basso, l'altro che scende dall'alto, nel mezzo sta l'interazione, la "partecipazione". C'è infatti un cassetto all'interno del quale il pubblico è invitato a lasciare un "desiderio", scritto su un foglietto.
Qual'è l'obiettivo del percorso espositivo?
La mostra è divisa in due spazi diversi all'interno della città, per riportare movimento nelle strade e nei vicoli - quelli "agibili" - del centro. Quindi "partecipare" alla mostra, significa anche creare dei percorsi per passare da uno spazio all'altro, legando due luoghi. Questa è la densità abitativa, e se viene a mancare, il luogo non è più una città.
Non credo che partecipazione significhi che Renzo Piano, per esempio, debba bussare alle porte di ogni cittadino per chiedere cosa pensa riguardo un progetto. Piuttosto penso debba essere un impegno quotidiano, un lavoro che venga portato avanti tutti i giorni. A chi si lamenta di progetti "poco partecipati", chiederei: "Tu cosa hai fatto in questi quattro anni? Hai costruito qualcosa per questa città?". La parte mancante, che si trova in tutte le mie opere, e anche intorno a noi, è proprio quella del "fare". C'è sempre qualcosa da costruire, ricostruire, un luogo da raggiungere.
La condizione in cui ci troviamo è senza dubbio difficile, ma bisogna comunque prendere una posizione netta.
Cosa ti ha creato maggiori difficoltà nella realizzazione di questo lavoro?
Processualmente, organizzativamente ed emotivamente più impegnativo è stato rendere la" parte mancante".
Il pezzo più difficile infatti è quello che non c'è, e che io chiedo ad un pubblico. Non con l'idea che sia un semplice pubblico, bensì cittadinanza. Per questo deve interagire con la mostra e con la città. Credo che il compito di noi artisti sia anche quello di dare delle "indicazioni stradali", suggerire dei punti interrogativi, stimolare la riflessione su determinati temi. Quella che sto toccando è una materia delicata, perché sarebbe molto più semplice fregarsene dell'Aquila del terremoto e della partecipazione.
La cosa più difficile è proprio il rapporto fra ogni singola persona. Infatti da un po' di tempo sono sempre presente negli spazi dove espongo, durante le mostre, per accogliere chi si prende la briga di entrare nel mio mondo. Anche questi giorni, fino al 2 settembre, sarà possibile trovarmi tutti i pomeriggi al Palazzetto dei Nobili. Riuscire a veicolare il pensiero è la parte più complicata della mostra, aldilà dell'organizzazione fisica, poiché si tratta di trasmettere delle idee.
Quando hai iniziato a lavorare a questa mostra?
Fatta eccezione per due elementi che avrei voluto realizzare già da un anno e mezzo a questa parte, circa due mesi fa. L'associazione "Amici dei Musei Abruzzo" mi ha contattato in seguito alla mostra che ho fatto all'istituto Polacco di Roma, dove ho incontrato dopo molto tempo Antonella Muzi.
Il fil rouge del percorso espositivo è strettamente legato alla condizione dell'Aquila. L'ho unito ad un progetto sull'incisione di Albrecht Durer, che sto continuando a sviluppare separatamente e che presenterò probabilmente a ottobre, in una mia mostra personale a Roma.