Mercoledì, 06 Settembre 2017 00:16

L'Aquila calling: a Casematte, le storie di migranti, rifugiati e volontari

di 

Ci sono storie che vengono ignorate, in una città in eterno divenire che dimentica, però, di riflettere sul presente e sui cambiamenti che ne hanno modificato la fisionomia; ci sono volti che restano nell'ombra, i problemi da affrontare sono altri, d'altra parte, in un capoluogo di Regione da ricostruire. Ci sono persone che vivono una quotidianità fatta di marginalità, e che non hanno risposte adeguate al bisogno d'integrazione. In un momento storico che racconta di muri che si alzano e confini che si chiudono.

A Casematte, nel parco di Collemaggio, 3e32 e Fraterna Tau hanno organizzato un dibattito a più voci che ha avuto la forza di accendere la luce su storie e volti di migranti e rifugiati, di chi parte da lontano e raggiunge la nostra città, degli operatori e dei volontari che lavorano con loro; come Elena, giovanissima, che ha svolto il Servizio Civile nel centro d'accoglienza straordinaria di via Roma e che racconta la sua esperienza con commozione e trasporto. "Come si fa a vivere con distacco le storie di chi fugge dal proprio paese per cercare condizioni di vita migliore, per sfuggire da guerre, persecuzioni o catastrofi naturali?", si domanda.

Storie come quella di Amadou, 23 anni, giunto a L'Aquila dal Senegal. "Vengo dal sud del Paese - racconta - da Casamance, dove imperversa il Movimento delle Forze Democratiche (MFDC), un gruppo di ribelli che vuole l'indipendenza della regione meridionale: attaccano basi militari ma anche case e negozi uccidendo civili", spiega: "mi hanno minacciato, hanno promesso mi avrebbero ucciso; così, sono fuggito in altre città ma ero sempre in pericolo. Dunque, con i miei due fratelli ho deciso di lasciare il Paese, in cerca di una vita migliore in Europa: siamo partiti nel giugno 2016, pagando i militari per attraversare posti di blocco improvvisati. Abbiamo attraversato Mali, Burkina Faso e Niger, il deserto libico, aspettando che autisti con pick-up caricassero più di 30 persone a viaggio per portarci - dietro pagamento - verso Tripoli. Lì, abbiamo vissuto nei campi allestiti dagli scafisti in condizioni davvero difficili: per 5 giorni siamo stati in un campo dove ci era impedito di parlare, di lavarci, con la minaccia che saremmo stati picchiati; poi, siamo stati trasferiti in un campo prigione, dove siamo rimasti 25 giorni in una piccola stanza dov'eramo stipati in 300. In molti si sono ammalati. Ci picchiavano con i tubi. Di lì, in un altro campo da dove, almeno, potevamo uscire: un giorno, con i miei fratelli abbiamo deciso di fare una passeggiata, si celebrava il Ramadan. Mamadou si è acceso una sigaretta: un libico lo ha guardato, si è avvicinato - "fumi durante il Ramadan?" - gli ha sparato per strada. E' stato ammazzato davanti ai miei occhi. Lasciato il campo, abbiamo atteso 17 giorni a Tripoli, non avevamo più soldi: siamo stati testimoni di tante violenze. Finalmente, il 18esimo giorno - verso le 3 del mattino - ci hanno fatto salire su un gommone".

Non finisce qui, la storia di Amadou: "Siamo stati attaccati da un gruppo di ribelli libici armati: ci hanno catturati e riportati a terra. Un'altra settimana, e siamo stati costretti a chiamare casa per avere altri soldi così da tentare di nuovo la traversata: siamo saliti su un altro gommone, di notte, alle 7 del mattino eravamo in acque internazionali ma prendevamo già acqua; all'arrivo dei soccorsi, il gommone era praticamente affondato. Soltanto a bordo ho capito che anche l'altro mio fratello non ce l'aveva fatta".

Amadou si commuove, fa fatica ad andare avanti col racconto: spiega di avere spesso, davanti agli occhi, il volto dell'uomo che in Libia ha ucciso il fratello a sangue freddo; trova difficoltà a dormire, gli incubi lo inseguono. Vive a L'Aquila, potrebbe essere il ragazzo che avete incrociato ieri, a camminare lungo viale Corrado IV o affacciato ad una finestra di via Roma.

Imran è afgano, invece, 31 anni: ha lasciato il suo paese 10 anni fa: "nessuno vuole lasciare casa, volevo rimanerci: mio padre, però, mi ha costretto a partire". Voleva studiare Imran, sognava di fare il medico: "come gli altri bambini, fino a 15 anni ho frequentato la scuola coranica: poi, i professori sono cambiati. Ci hanno separati, hanno iniziato ad insegnarci un Islam diverso, mostrandoci i video degli americani e dei russi che - ci spiegavano - hanno ucciso milioni di afgani innocenti. A vent'anni, ci hanno preso da parte: appuntamento al giorno dopo, per iniziare ad allenarci in montagna, ci è stato spiegato". Imran non aveva ancora realizzato compiutamente cosa stesse accadendo: raggiungendo la montagna, però, capì che doveva parlarne con il padre: "erano talebani - lo intuì immediatamente - ci stavano reclutando. Mio padre mi disse di tenere la bocca chiusa e, l'indomani, mi spedì da uno zio a Kabul. I giorni seguenti, vennero a cercarmi: temevano potessi parlare, raccontare agli uomini del governo del campo d'addestramento e di coloro che mi ci avevano portato. Minacciarano la mia famiglia, rapirono mio padre che fu liberato in cambio di soldi e della promessa di consegnarmi, una volta fossi tornato a casa. Non sarei mai più stato al sicuro, in Afghanistan: per questo, mio padre parlò con un agente (uno scafista, ndr) che mi accompagnò in Iran. Di lì, il viaggio è proseguito a piedi; ho visto cose orribili, lungo la strada". Imran non riesce proprio a dimenticare il volto del pakistano che, anziano e sovrappeso, lungo il cammino, si è arreso alla stanchezza e ai dolori: "eravamo un gruppo di 150-200 persone, con 5 agenti; uno di loro, ha preso da terra una grossa pietra e ha colpito con violenza l'uomo alla testa. Ci hanno forzato con le armi a riprendere il cammino: era ancora vivo, a terra, agonizzante".

Arrivato in Turchia, Imran ha potuto finalmente mettersi in contatto con la famiglia: "ho capito subito che qualcosa non andava; i talebani erano tornati a cercarmi, e stavolta avevano ucciso due mie fratelli, innocenti. Se non torni uccideremo la tua famiglia, il messaggio che mi stavano inviando: volevo tornare, mio padre me l'ha impedito. Nessuno vuole lasciare la famiglia - lo ripete, Imran - se sei costretto a farlo, è perché la vita quotidiana è peggio del viaggio che dovrai affrontare". E delle difficoltà che migranti e rifugiati incontrano, arrivati in Italia; Imran ringrazia gli italiani per l'accoglienza, e così Idris che di anni ne ha 20, ed è arrivato dalla Costa d'Avorio che ne aveva 18: "sono felice di essere qui, ringrazio per il cibo, la casa; mi rendo conto di ciò che fate per noi", sottolinea. "Ma non siamo qui in vacanza", aggiunge; "aspettiamo di sapere se verrà accolta oppure no la richiesta di asilo politico: non è facile. Un uomo deve lavorare, per essere indipendente, per curare la famiglia, per realizzarsi: trascorrere giorni e notti nel centro d'accoglienza, senza poter lavorare, è davvero difficile. E' già passato un anno, e non so stare senza far niente: il mio corpo non è abituato a non essere attivo". Idris trova difficoltà persino ad uscire, per una passeggiata: "Un giorno, tornando dalla Moschea con alcuni amici, una macchina ci ha avvicinato: a bordo c'erano tre uomini, ci hanno sputato addosso. Altri ci insultano. Ho deciso di non reagire, di far finta di niente: non sono a casa mia, se reagisco è a me stesso che faccio del male. Non rivolgo più il buongiorno alle persone che incontro: non rispondono, pensano voglia chiedere l'elemosina o vendere qualcosa. Ma vorrei dirvi che non tutti fanno l'elemosina, la maggior parte di noi non lo fa".

Idris sogna di sposarsi e avere figli, vorrebbe crescessero in Italia: "mi piacerebbe poter lavorare: sin da bambino sogno di fare il calciatore, ma capisco che è molto difficile; sono realista, sono pronto a fare qualsiasi cosa".

Ce ne sono tante di storie come questa, L'Aquila ne racconta quotidianamente a chi non fa finta di non sentire. "Accoglienza, solidarietà, apertura: sono parole che il 3e32 ha nel suo dna sin dal 2009, quando anche noi siamo stati profughi, profughi interni, costretti ad abbandonare la casa e le nostre abitudini a seguito del terremoto", sottolinea Silvia Pozone, attivista del comitato; "in quel momento è nato Casematte, per accogliere chiunque ne avesse bisogno: continuiamo a farlo, ancora oggi". A vivere la solidarietà come pratica quotidiana, ad aprire le porte sporcandosi le mani con le marginalità, "che non vuol dire occuparsi soltanto dei migranti ma anche con i tanti lavoratori, italiani e stranieri, che giungono all'Aquila attratti dal più grande cantiere d'Europa", aggiunge Alessandro Tettamanti.

"Abbiamo avviato un'interlocuzione con le associazioni che si occupano d'accoglienza: qui, abbiamo un punto di vista privilegiato della situazione sociale che vive la città. Come affrontarla, come mettere in campo interventi che non siano circoscritti ad una o più associazioni, ad uno o più spazi sociali? Sono sempre più numerosi i casi di persone in cerca di lavoro che, alle 8 di sera, non hanno un posto dove dormire; sono sempre più numerosi i migranti che, in attesa di una risposta alla richiesta d'accoglienza, pur avendo un regolare permesso di soggiorno vengono sbattuti fuori dal centro dove vivono con decreto prefettizio per le norme stringenti imposte dalle leggi. Che fanno? Dove vanno? Manca un intervento strutturato d'ampio respiro che venga incontro alle loro richieste. A parte la Caritas, che ha un numero di posti limitati, non c'è altro a L'Aquila: è un tema che investe il Paese, più in generale, con i diritti essenziali all'abitare che non vengono più rispettati. Se c'è qualcuno che dorme nel parco di Collemaggio, all'aperto, d'inverno, non posso girarmi dall'altra parte ma non posso neanche affrontare da solo una situazione più grande di me. E' di questo che dovremmo parlare, spingendo la Municipalità a muoversi in questo senso".

Tra il pubblico, ad ascoltare il dibattito, anche la senatrice pentastellata Enza Blundo e la consigliera comunale della Coalizione sociale, Carla Cimoroni. "Sarebbe bello se il Comune dell'Aquila si muovesse per realizzare una 'Casa dell'Accoglienza' - la proposta della consigliera - un dormitorio con docce aperto a chi ne abbia bisogno". Cimoroni ha poi informato la platea che "con un bel numero di associazioni" si è pensato di "cogliere un'opportunità che, una volta tanto, la legge ci consente: la possibilità di tutoraggio per i minori stranieri non accompagnati. Significa che un cittadino può offrirsi volontariamente per seguire un minore, a seguito di un breve corso di formazione. Considerato che l'affidamento del minore viene deciso dal Tribunale dei minori, abbiamo pensato di dare la nostra disponibilità a formare dei cittadini in questo senso, mettendo in piedi i corsi di 24-36 ore".

Articoli correlati (da tag)

Chiudi