Ricorrono quest'anno i 50 anni del Sessantotto, la contestazione, il movimento di protesta che esplose in Italia e in Europa (almeno in quella Occidentale) e che ebbe il suo apice nel breve ma intenso Maggio francese.
Una ricorrenza che viene, giustamente, celebrata, perché, checché se ne dica, il Sessantotto ha lasciato tracce profonde, di cui spesso nemmeno ci si rende conto.
Si continua ancora discutere di quello che ha significato, se fu una rivoluzione riuscita o fallita.
Lo abbiamo chiesto a Sergio Benvenuto - psicoanalista, filosofo e saggista, ricercatore a Roma all’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del Cnr - che, nel maggio del 1968, si trovava a Parigi, epicentro della rivolta (anche se in Italia la miccia venne accesa già alcuni mesi prima: la famosa battaglia di Valle Giulia avvenne il 1° marzo), e visse in presa diretta, da giovane studente, quei giorni.
Benvenuto ha da poco pubblicato un libro, Godere senza limiti. Un italiano nel maggio 1968 a Parigi (Mimesis), in cui dipinge un affresco rievocativo dell'epoca, senza nostalgie e senza risparmiare nemmeno critiche, anche corrosive, agli errori, alle ingenuità, alle derive narcisiste di quella generazione.
Una generazione, scrive Benvenuto, che aveva bisogno anzitutto di "esperienze totali, sconvolgenti. Di godimenti storici". "La nostra protesta radicale, totale, incondizionata" si legge in un passaggio del libro "non era figlia della crisi, della miseria o del profilarsi di un futuro nero: al contrario, fu la ricaduta di un'euforica prosperità di parte dell'Europa. [...] Il radicalismo rivoluzionario del 68 fu più che altro un liberalismo di impazienza".
Professor Benvenuto, già nella pagina introduttiva del suo libro lei afferma che “Il 68 è stato indubbiamente sopravvalutato”. E anche nel resto del volume, si ha l’impressione che con la sua ricostruzione lei voglia compiere una sorta di smitizzazione o - per usare un termine in voga in quegli anni - di “decostruzione” di quella stagione. Eppure recentemente Thomas Piketty ha scritto che questa è una lettura riduttiva del Sessantotto, che invece inaugurò un periodo di grandi cambiamenti politici (basti pensare all’emergere del femminismo e dell’ambientalismo) e di conquiste sociali e sindacali importanti per le classi lavoratrici. A chi dobbiamo dare retta? A chi guarda a quegli anni con disincanto e in sostanza afferma che, politicamente, il Sessantotto è stato un flop o a chi invece ne rivendica la portata innovativa e rivoluzionaria?
Forse sarà sorpreso se dico che sono d’accordo con Piketty, eppure mantengo il punto che il Maggio 68 – non tutto il 68, quindi – è stato sopravvalutato da molti. Se per 68 intendiamo il quindicennio che va dalla metà degli anni 60 alla fine degli anni 70, è indubbio che esso è stato un’epoca di grandi fermenti che hanno trasformato la società. Lei evocava il femminismo e l’ecologia, direi anche i diritti civili per le minoranze sessuali ed etniche, la scomparsa della censura. E’ invece sul versante delle conquiste economiche dei lavoratori che avrei perplessità. Proprio Piketty ci ha mostrato che, a partire dagli anni 80, le diseguaglianze economiche si sono molto allargate in Occidente, e abbiamo assistito a un declino costante del potere delle organizzazioni sindacali, in Italia come altrove. Nel mio libro parlo soprattutto del 68 francese, che ha assunto poi un valore mitico, e non solo per i francesi. Nel libro mostro che il 68, non solo in Francia, segnò la convergenza di molte istanze politiche e culturali: la storia successiva ha mostrato che alcune di queste istanze stavano iniziando il loro tramonto, anche se dominavano la scna; mentre altre istanze erano alla loro alba, e oggi hanno raggiunto il loro mezzogiorno. Il 68 è stato l’inizio del tramonto della tradizione bolscevica – nelle declinazioni maoiste, sovietiche, trotzkiste, guevariste – e quindi del marxismo nel suo complesso. Fu il canto del cigno del comunismo. Mentre la conquista dei diritti civili ha avuto uno sviluppo straordinario, che prosegue tutt’oggi. I marxisti non hanno mai molto amato le politiche dei diritti civili, anche se poi in parte si sono allineati, seguendo la corrente. Insomma, ci sono vari “68”.
Lei era a Parigi durante quei giorni. Prima che scoppiasse la rivolta, prima con l’occupazione di Nanterre e poi con gli scontri al Quartiere Latino, nessuno aveva avuto sentore che qualcosa stesse per accadere. E’ diventato famoso, infatti, un articolo uscito su Le Monde qualche giorno prima dei moti parigini intitolato: “La Francia si annoia”. La vita politica, gli indicatori economici, tutto concorreva a dare un’idea di un Paese tranquillo, non attraversato da tensioni. Com’è possibile che nessuno si accorse di quello che sarebbe successo di lì a poco?
Nessun terremoto storico è stato mai previsto. Chi aveva previsto la rivoluzione americana del 1776, la rivoluzione francese del 1789, il 1848, la rivoluzione bolscevica del 1917? E quale economista ha previsto la crisi del 2008? L’evento in sé è imprevedibile. Poi, col senno di poi, si dice: “Ma era prevedibilissimo!”. Il bello della storia è che ci sorprende sempre. Ma io che ho vissuto quell’epoca posso dire che invece mi aspettavo che qualcosa accadesse, perché ero un militante di estrema sinistra. Gran parte dei nostri slogan, che apparivano folli alla sinistra moderata, d’un tratto divennero popolari, dilagarono nelle strade. Quindi, anche se nessuno poteva prevedere il Maggio come si sarebbe poi effettivamente svolto, il clima era comunque molto fremente. In particolare, ci fu sia in Italia che in Francia, per non parlare degli Stati Uniti, una straordinaria mobilitazione contro la guerra in Vietnam. Le grandi manifestazioni anti-americane furono il prologo del 68. Chi non lo vide arrivare, quindi, era già fuori del mondo.
In un altro passaggio definisce il Sessantotto “l’ebbrezza di un sogno che durò lo spazio di un mese”. Una lettura poco di sinistra e anzi nietzschiana, richiamata anche dal titolo del libro. Fu davvero solo un’orgia?
Direi che fu addirittura un’orgia dionisiaca, non solo un’orgia. Se il dionisismo coinvolge milioni di persone, non mi sembra cosa da poco. Come ho detto, ci furono vari 68, e uno fu nietzscheano, anche se attraverso la mediazione di pensatori allora viventi, come Foucault, Deleuze, Marcuse, Debord. Lo ripeto: una cosa è il 68, inteso in senso ampio, che è un fenomeno certo non solo francese. Altra cosa è il Maggio 68, che fu un grande spettacolo pirotecnico entusiasmante. Come ha detto una storica italiana, fu più la simulazione di una rivoluzione che una rivoluzione. Ma appunto, è impossibile capire la nostra generazione – dei baby boomers – senza capire quanto fosse magnetico il concetto di Rivoluzione. E non solo politica: nel costume, nell’amore, nelle arti, in filosofia.
Nel libro parla a lungo del clima culturale che si respirava in Francia in quel periodo, dell’assurgere di intellettuali come Foucault, Lacan, Barhtes a superstar della cultura, dello strutturalismo, del marxismo, di Guy Debord. Pensatori e correnti anche molto diversi tra loro, che pure, in qualche modo, si tenevano insieme in nome dell’anti autoritarismo e di una rivolta contro il sapere accademico tradizionale. E’ così?
E’ così. Io ho insistito sullo strutturalismo perché il 68 fu il suo zenith in Francia. Mi pare che in Germania l’influsso dominante fosse quello della scuola di Francoforte, in Italia ci fu un crogiuolo di influenze. Molto importante fu allora Elvio Fachinelli, mio maestro in psicoanalisi, mentre la battaglia di Basaglia contro i manicomi si fondava piuttosto sulla fenomenologia tedesca. Solo in seguito, negli anni 80, si impose il cosiddetto “pensiero debole”, una variante di ermeneutica, attraverso Vattimo, Rovatti, e altri.
Rispetto a quello francese, in cosa fu diverso il Sessantotto italiano?
Il 68 francese assunse poi forme per lo più estetiche e culturali, mentre i militanti italiani col tempo si incattivirono, se si può dire. Il 68 francese sfociò nei nouveaux philosophes, ovvero in un attacco culturale senza precedenti contro la cultura marxista dominante nelle università francesi. Quello italiano sfociò invece nel terrorismo, rosso e nero. In Francia non c’è mai stato terrorismo politico di sinistra e di destra dopo il 68, a parte casi isolati. Diciamo che il sinistrismo – gauchisme - francese è stato più saggio di quello italiano.
Quando si esaurì, secondo lei, l’onda del Sessantotto, in Europa e nel nostro Paese in particolare?
Tutti convengono nel dire che la svolta avvenne a inizio anni 80, a partire dall’avvento di Reagan negli USA e della Thatcher in Gran Bretagna. Ovvero, con l’affermarsi della corrente neo-liberale. E’ da un paio di secoli che i paesi anglo-americani fanno da battistrada politico ai paesi europei continentali. Perciò temo che Trunp e la Brexit finiscano col fare scuola nel resto dell’Europa. Questo – il nuovo isolazionismo anti-globale - sarebbe allora la vera svolta storica dell’Occidente, dalla prima guerra mondiale in poi.
Cosa salva di quegli anni? Cosa, invece, non rimpiange?
Di quegli anni salvo la gioventù. Ho conosciuto molti russi e ucraini che erano giovani durante lo stalinismo: rimpiangono quegli anni, perché erano giovani. Anche se non erano favorevoli al regime. Forse ogni generazione ha diritto a compiere i propri errori. Ma gli errori del 68, a parte le derive terroristiche, non hanno avuto effetti catastrofici. Certamente non in Francia. Dopo tutto, ci siamo molto divertiti.
E’d’accordo con chi afferma che la delegittimazione di cui soffrono, oggi, alcune istituzioni, in primis la scuola, sono figlie della cultura del Sessantotto?
Forse. Solo che allora la contestazione del sistema scolastico e accademico si appoggiava a sistemi culturali molto solidi: si studiavano Marx, Lenin, Gramsci, Deleuze, e quindi si contestava la vecchia scuola arretrata e autoritaria all’epoca. Oggi mi pare che non si contesti l’arretratezza del sistema scolastico, ma si contesti la cultura nel suo insieme. E’ la matrice del populismo oggi dilagante: disprezzo e risentimento nei confronti degli intellettuali. All’epoca invece chi contestava si voleva un intellettuale, anche se di tipo nuovo.
I giovani nel Sessantotto scesero in piazza nonostante la situazione economica fosse tutt’altro che negativa e, soprattutto, avendo la certezza che sarebbero stati meglio dei loro genitori. Oggi invece, malgrado i giovani vivano una situazione di grande precarietà lavorativa e esistenziale e siano consapevoli che staranno peggio dei loro genitori, non si protesta più, non si scende più in piazza. Non c’è un movimento, né tanto meno un partito, che riesca ad aggregare e a trasformare in un soggetto politico la generazione dei precari e degli sfruttati. I social sono traboccanti di invettive e sfoghi indignati ma poi le piazze sono vuote. Non c’è nemmeno più l’ebbrezza di cui parla nel suo libro. Perché? Da cosa dipende, secondo lei, questa inerzia?
L’Italia è un paese in declino da 25 anni, e quindi il futuro ai giovani appare buio. Ma non è così in altri paesi che hanno il vento in poppa, come i paesi del Nord Europa, la Cina, l’India, la California. Credo che oggi la protesta giovanile si esprima nel voto populista, per i grillini o per la Lega. Per ogni partito o movimento che attacchi l’assetto attuale, non importa se da sinistra, da destra o da nowhere. I giovani più intraprendenti emigrano, gli altri si sfogano sui social. La verità è che non esistono più dottrine forti, come il marxismo o lo strrutturalismo, che erano in grado di dare una direzione alla protesta. Allora i nostri pensatori di riferimento erano personaggi dello spessore di Sartre, Adorno, Russell, Foucault, oggi sono Grillo e Casaleggio… Oggi i precari e gli sfruttati non hanno più veri leader, non hanno più maîtres-à-penser. Si accontentano così di demagoghi che sfruttano la loro precarietà.