Saranno sicuramente contenti tutti quelli che sono d'accordo con Hobbes nel dire “homo hominis lupus”, ovvero che l'uomo non è per natura portato alla cooperazione, anzi, nello Stato di Natura quello che avviene è una perpetua guerra degli uomini contro i loro simili per l'affermazione del più forte.
Pare, insomma, che l'assunto di Aristotele “L'uomo è animale sociale” sia da rivedere. Anche in questi casi, la storia ci viene in aiuto con la memoria di fatti che tutti ben conosciamo. E in qualche modo anche Kubrik, in '2001:Odissea nello spazio', ci mostra che perfino i nostri più lontani antenati non hanno esitato a vedere l'altro non come un compagno ma come quello su cui alzare l'arma. D'altra parte, la socialità è una forza dominante che modella il pensiero, il comportamento, la psicologia ed anche l'attività del cervello.
Lo dimostra chiaramente la teoria del “cervello sociale”: afferma che il nostro cervello opera in relazione con il cervello degli altri. In altri termini, sarebbe un organo in qualche modo sociale, modellato dall’esperienza e dalle interazioni. L'entusiasmo sociologico che vede la socialità al centro della vita e dell'evoluzione umana deve, però, essere stemperato dall'evidenza che essere sociali non è per nulla semplice o automatico.
Una delle prove più avvincenti della presunta automatica natura sociale dell'uomo proviene dall'esperimento di Fritz Heider e Mary Simmel, due psicologi che nel 1944 idearono un'animazione nella quale due triangoli ed un cerchio si muovono attorno ad un rettangolo (video rintracciabile agevolmente anche in rete). L'animazione ritrae delle semplici forme, ma le persone trovano impossibile non interpretare questi oggetti come attori umani, e costruire una storia intorno ai loro movimenti. Dalla lettura dell'articolo che descrive il fenomeno, risulta che la percezione di queste forme in termini sociali non è automatica, ma evocata da particolari caratteristiche che stimolano gli individui a proiettare sulle forme situazione reali. Esse sono state ideate, infatti, per muoversi in traiettorie che mimano specificamente un dato comportamento sociale.
Se il loro movimento fosse alterato o invertito non si sarebbe riusciti a suscitare lo stesso grado di mimetizzazione. Probabilmente gli umani sarebbero anche pronti e disposti a vedere il mondo attraverso una lente sociale, ma non lo fanno così automaticamente. Nonostante le capacità umane nel capire la mente dei propri simili vadano molto oltre rispetto a quelle degli altri animali; nonostante la specie umana sia capace di comprendere i bisogni degli altri; e nonostante, in alcuni casi, si riesca persino a trasformare l'empatia in cura e generosità, noi non riusciamo a impiegare tali abilità facilmente e in egual modo per tutti i nostri simili.
Ci impegniamo, infatti, in atti di lealtà e cooperazione quasi esclusivamente verso una ristretta cerchia di persone a noi vicine, ma lo facciamo a spese delle persone fuori da questa cerchia. Alcune ricerche attestano, addirittura, che le società che maggiormente sono fedeli verso i membri del gruppo tendono ad essere quelle che più avallano la violenza contro gli esterni. Il nostro altruismo ha confini ben precisi. Il nostro essere animali sociali, di conseguenza.
Per l'uomo, poi, immedesimarsi e tentare di capire la mente dell'altro richiede una certa motivazione e il possesso delle necessarie risorse cognitive. Siccome entrambe sono finite, così lo è anche la nostra capacità sociale. Perciò, ogni intervento che intende aumentare la nostra considerazione degli altri in termini di empatia, benevolenza e compassione è limitato. Un giorno il pozzo dal quale attingono le nostre più preziose abilità sociali, si prosciugherà. In conclusione, dato che le nostre capacità sociali non sono automatiche e sono focalizzate su un gruppo ristretto di persone, che è “il mio gruppo”, possiamo mettere in discussione l'affermazione di Aristotele.
Da una pubblicazione di Adam Waytz, psicologo, Northwestern University.
Ludovica LeMieValigie