C'è stato un tempo che abbiamo rimosso in cui le sorti del nostro angolo di mondo erano sconosciute ai più. Un tempo lontano in cui l'eco delle piccole storie di questa città non arrivavano al grande pubblico.
Certo, c'era L'Aquila Rugby che la domenica sera, a ridosso dei titoli di coda della Domenica Sportiva, ti riempiva di orgoglio per qualche secondo quando venivano rapidamente dati i risultati del campionato di Rugby. Cosa che mi permetteva di pavoneggiarmi, d'estate al mare, con i miei compagni di giochi ascolani, che potevano controbattere alle mie vanterie di scudetti o comunque di campionati spettacolari con le risicate salvezze all'ultima giornata della loro squadretta di calcio.
Sì, qualcuno qua e là conosceva la storia di Celestino V, ma tutto si risolveva in discussioni estenuanti sulla storia del Gran Rifiuto, con buona pace delle letture più approfondite del controverso passo dantesco. E alla fine, impermeabili alle tue spiegazioni, ti guardavano con aria di sufficienza, come a sottolineare che manco un Papa fatto bene ti era toccato.
Trepidazione vera e propria era quella che, all'ora del telegiornale, vibrava per i tinelli aquilani all'approssimarsi delle previsioni del tempo, soprattutto quando imperversava la stagione fredda e scattava il “triangolare del gelo” tra L'Aquila, Bolzano e Potenza. Chi sarebbe stata la regina del freddo quella sera? E quando L'Aquila segnava un bel meno dodici, staccando di due o tre gradi le sue concorrenti dirette di nord e sud, un po' ti inorgoglivi pensando ai tuoi compagni del mare, che probabilmente in quel momento ti immaginavano come un pioniere a costruire igloo ed essiccare carne per sopravvivere alla stagione del gelo.
Erano di là da venire le tragiche immagini dell'aprile del 2009, e soprattutto la ciarliera e fastidiosa giostra mediatica dei mesi successivi. Non si incontravano George Clooney e Bill Murray a struscio in piazza, Obama non si intratteneva davanti a Nurzia con un'ilare Presidente della Provincia mentre la first lady Michelle si commuoveva davanti ai giornalisti alla “puglietta”, Sarkozy e Carlà non ci davano dentro di cozze e Trebbiano al Baco da Seta e se incontravi un giornalista nazionale era Vespa che tornava a dare l'acqua ai gerani.
La prima volta che sentii parlare dell'Aquila in tempi non sospetti su un palcoscenico mondiale fu durante Ratatouille, il film di animazione della Pixar del 2007 che parla di un topo gourmet. Il qual roditore, durante un dialogo, parla dello zafferano dell'Aquila sperticandosi in elogi. Nell'originale, la citazione è: “Ahhh. L'Aquila saffron. Italian, huh? Gusteau says it's excellent.”
Figuratevi lo stupore nel sentire un ratto francese digitale tessere le lodi del nostro oro rosso. Figuratevi, immagino, la purga degli abitanti di Navelli, che si sono visti scippare in mondovisione la paternità del loro tesoro dal Capoluogo. Mi dispiace ragazzi, bisogna stare come i rospi alle sassate. La Storia, si sa, si prende spesso delle licenze geografiche. Pensate al festival di Bethel del '69, che per tutti è Woodstock.
Ho ripensato di recente a questo episodio di Ratatouille. Ci ho ripensato la scorsa settimana, all'inizio di una puntata di Masterchef Italia.
Guardate Masterchef? No?
Dovreste.
Masterchef è un enorme tourbillon mediatico che ruota intorno all'idea di alta cucina, con pesantissime contaminazioni da reality. Tre divi della gastronomia, giocando sull'alternanza dei ruoli (il bello, il cattivo, il simpatico) tartassa lo stuolo dei candidati chef con violenze mentali ai limiti dell'umana sopportazione.
Dal canto loro, i partecipanti dipingono un arcobaleno di scenari antropologici che spaziano su tutto lo spettro della più varia, e spesso poco consolante, umanità. Per cui il paraberlusconiano albergatore per cani pugliese che si esprime a slogan motivazionali fa da controcanto alla materfamilias marocchina trapiantata a Bergamo e “italianizzata” come manco Borghezio avrebbe mai potuto sognare, e l'ex ricco industriale che ha distrutto l'azienda di famiglia e cerca in Masterchef un riscatto di vita incrocia i fornelli con il nutrizionista secchione torinese dalla facies lievemente topesca che ostenta la sua erudizione culinaria con una supponenza da far irritare il Mahatma Gandhi.
La scorsa settimana un'intera puntata è stata dedicata allo zafferano, e il nerd piemontese non ha perso occasione per dar sfoggio di cultura dicendo “lo zafferano ti fa pensare a paesi lontani, poi lo fanno all'Aquila”. Affermazione che gli è valsa il mio immediato tifo e, immagino, una fatwa della comunità navellese.
Ora, assunto che L'Aquila è famosa nel mondo per lo zafferano, fatemi una lista delle cinque principali ricette nostrane a base del prezioso alimento.
Non ci riuscite, vero?
A dire il vero, nel sancta sanctorum delle delizie culinarie aquilane storiche non c'è traccia di ricette allo zafferano. Il ristorante Il Tetto, negli anni ottanta\novanta, introdusse nel menù la “Perdonanza”, una chitarrina con pomodoro e zafferano con pecorino, che in una versione rivista e corretta ad uso casalingo è diventata un cavallo di battaglia a casa mia, ma fu un'operazione “a tavolino”.
Quando un canale tematico sulla gastronomia chiese al ristorante Ernesto una ricetta tipica a base di zafferano, i gestori risposero, correttamente, che nella cultura gastronomica tradizionale locale lo zafferano, semplicemente, non c'è.
Poi, ovviamente, i ristoratori hanno adeguato i loro menù e oggi lo zafferano si usa anche da noi, però il fatto che sia stato integrato con un processo così lungo e faticoso ti dà un po' il senso di quanto ci voglia a far breccia in una certa aquilanità.
Se attraversate di domenica il centro di Sulmona rischiate di inciampare nei confetti, che vi vengono propinati in tutte le salse. Per trovare lo zafferano aquilano all'Aquila dovete sapere dove andare e sperare di essere fortunati.
Il misconoscimento dello zafferano, vero propheta in patria del gusto, mi sembra una triste metafora dello strano destino che ci portiamo dietro. Stiamo seduti su veri e propri tesori senza sapere che farci. Penso ai ragazzi che vanno via non per scelta ma per necessità, alle eccellenze tecnologiche che chiudono, ad un centro storico straordinario che mai prima del terremoto le generazioni che ci hanno preceduto sono state in grado di valorizzare turisticamente. Al Gran Sasso, alle montagne che ci circondano, ai borghi bellissimi che le punteggiano.
Questa incapacità di valorizzarci è un fato da cui non ci libereremo?
Non so, a volte il pessimismo ha il sopravvento e penso di sì.
Poi la piccola di casa esce da scuola, sale in macchina, mi guarda con sguardo complice e propone:
“Facciamo la Perdonanza ?”
Vabbè, com'è che dicevano i Clash?
“Il futuro non è scritto”.