Lunedì, 23 Dicembre 2019 16:39

Il messaggio del Cardinale Giuseppe Petrocchi per il Natale

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Il Vangelo ci presenta il Signore come il Dio-che-viene, o, forse si potrebbe dire, come il Dio che bussa alla nostra porta (cfr. Ap 3,20). Non grida, non minaccia, non si impone, non fa sfoggio della sua gloria e della sua onnipotenza. Ci viene incontro vestendo gli abiti degli ultimi e percorrendo le vie della nostra quotidianità: testimonia così l’infinita carità di Dio, che ha scelto di farsi uno di noi. Chiede solo di essere accolto. Rispetta la nostra libertà di dirgli di no e di lasciarLo, con gelida cortesia, fuori casa. Ma a chi gli fa posto concede il dono di diventare figlio di Dio e la gioia di ricevere grazia su grazia (cfr. Gv 1,12-19).

Il racconto di Luca (2,1-6) evidenzia un altro aspetto del Natale: Gesù ci visita rendendosi presente negli “altri”. Egli, infatti, si è avvicinato agli “affollati” abitanti di Betlemme attraverso i volti di Maria e Giuseppe, che cercavano un alloggio.

Il credente, allora, deve specializzarsi nell’arte di “riconoscere” il Dio-che-viene-nel- prossimo: per accoglierLo e farGli festa. L’unica condizione è quella di guardare “chi ci passa accanto” con gli occhi della fede, per andare oltre le sue sembianze esterne e percepire, nel centro della sua persona, la presenza del Signore.

Certo, ci sono fisionomie che ci rendono più facile e lieto l’incontro con il “Dio-che- viene”. Riesce più spontaneo accorgersi della Sua presenza in persone che ci sono familiari e ci vogliono bene.

È difficile, invece, riconoscere il Signore nell’estraneo o in coloro che sembrano occultare la Sua presenza con atteggiamenti antipatici ed ostili. In questo caso, ci viene spontaneo dire: “no, lì, il Signore non c’è! Come può il Figlio di Dio abitare in un uomo così carico di problemi ingombranti?”. Certi tipi bisogna tenerli fuori dalla porta di casa, o almeno, se è proprio impossibile evitarli, difendersi da loro con la politica dell’indifferenza o della “distanza” sociale.

Eppure quando il Signore ha detto: “qualunque cosa avete fatto ad uno dei miei fratelli più piccoli l’avete fatta a me” (cfr. Mt 25,40), non ha distinto tra buoni e cattivi. Anzi, si è spinto a fare affermazioni che possono apparire urtanti: ci ha detto di imitare il Padre che è nei cieli, il Quale «fa sorgere il sole sopra i malvagi e sopra e buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5,48). Proprio così: questo significa disponibilità adamare tutti, sempre, nonostante tutto. In una parola: amare anche i nemici. E per evitare interpretazioni restrittive, che possono costituire un comodo alibi, precisiamo che per nemico si intende chiunque ci abbia provocato disagi o ci faccia soffrire. Non conta se tanto o poco. Diventa nemico chi ci procura dispiaceri e ci ferisce con i suoi modi di fare, suscitando in noi reazioni di rigetto, di rancore o di rabbia.

Ma c’è di più: per “fare Natale” non basta adottare lo stile della “porta aperta” verso chi “bussa”; dobbiamo oltrepassare l’uscio di casa e prendere l’iniziativa di andare verso coloro che ci evitano o hanno qualcosa “contro di noi”. Il Vangelo ci obbliga a fare “il primo passo”. Questo è esplicitamente prescritto ogni qual volta ci presentiamo al cospetto di Dio: o nella preghiera («quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi»: Mc 11,25) o nel culto liturgico («se dunque presenti la tua offerta sull’altare, e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e và prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono»: Mt 5, 23-24). È importante sottolineare che, in entrambi i casi, non è precisato se “l’atteggiamento contro” nasce dall’essere in torto o dall’aver ragione. Nella logica di Dio ciò che conta è amare: e fare tutto il possibile per riconciliarsi con il fratello. Agendo così verranno poste le condizioni per ristabilire l’equità e l’ordine violato: allora il torto sarà riparato e la verità sarà riconosciuta. Solo quando c’è la carità, infatti, si può dare a ciascuno ciò che gli spetta (cfr. Rm 13,7). Altrimenti c’è punizione, risarcimento, ritorsione, rivincita o vendetta: ma non c’è, in senso pieno (cioè evangelico) giustizia, che va sempre coniugata con la misericordia.

Dunque, guardiamoci dentro, scrutiamo i nostri archivi mentali ed emotivi: identifichiamo “coloro” verso i quali - dopo aver puntato il dito “contro” - dobbiamo tendere una mano amica. Permettetemi di suggerirvi un metodo facile per arrivare ad individuare rapidamente i soggetti a cui assegnare la precedenza: lasciamoci guidare dal “sentimento- no” che, come un segnale di allarme, scatta quando evochiamo un nome o un evento. Più è acuta la nota stridente che avvertiamo dentro, meglio identifichiamo “chi” o “cosa” dobbiamo raggiungere con un “sovrappiù di amore”.

Se ci capita di sperimentare l’opposizione violenta del nostro “uomo vecchio” (cfr. Ef 4, 20-24), che “non pensa secondo Dio ma secondo gli uomini” (Mc 8,33), non scoraggiamoci, sapendo che «è apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini, che ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo» (Tt 2, 11,12). Non crediamo alla voce che ci induce a ritenere che vivere così è impossibile: perché «quello che è impossibile agli uomini è possibile a Dio» (cfr. Lc 18,27).

Ma se l’impegno che ci assumiamo in questo Natale è quello di fare posto al “Signore-che-viene”, accogliendoLo negli altri, stiamo bene attenti a non commettere l’errore di rifiutarLo in noi stessi, perché non ci accettiamo. La misericordia, se non la usiamo nei nostri confronti, non potremo offrirla al prossimo.

Se infatti non “ci” vogliamo bene, facendo spazio al Signore che ci abita, come possiamo amare gli altri o pretendere di essere amati? Se non siamo in pace con noi stessi e con il nostro passato (con quello che siamo e vorremmo non-essere; con quello che non-siamo e avremmo voluto essere!), non possiamo diventare costruttori di pace. Se non sto bene con me, perché non sono riconciliato dentro, non posso aiutare altri a trovare le vie della buona relazione. Nel giudizio che esprimiamo nei nostri confronti rischiamo di cadere in due opposti estremismi: o ci assolviamo, sempre e comunque; o diventiamo censori spietati di noi stessi. Solo riconoscendo e accogliendo Gesù presente-in-noi possiamo camminare sul delicato crinale dell’auto-valutazione, facendo la verità nella carità, senza scivolare nei precipizi del lassismo etico o del rigorismo moralistico.

Facciamo dunque “Natale nell’anima”, imparando a dire: “mi accetto, anche se non mi piaccio, e mi impegno a migliorare, nonostante gli errori in cui cado, perché pure in me c’è Gesù-che-viene”. In Lui, «pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14), «luce vera che illumina ogni uomo» (Gv 1,9), mi è dato il “potere” di attuare l’ “esodo” dal “me-negativo” e di camminare verso la completa realizzazione come figlio di Dio (cfr. Gv 1,12).

Ecco, dunque, i due versanti dinamici della stessa carità, che ci impegniamo a vivere in questo Natale: fare posto, dentro di noi, a Gesù-che-viene-negli-altri e portare gli altri ad incontrare Gesù-che-dimora-in-noi, ricordando sempre che Gesù è nato nella nostra precarietà: dunque, nelle situazioni di debolezza e di negatività che ci portiamo addosso o che vediamo nel prossimo.

Da questa prospettiva discende anche l’impegno, personale e comunitario, a dirigerci con passo deciso verso le “periferie esistenziali”, cioè verso i luoghi e le condizioni della “indigenza”: spirituale, sociale e materiale. Per esortarvi a manifestare, nei fatti, un amore preferenziale per i bisognosi e gli emarginati (sui quali compaiono i volti delle nuove e antiche povertà) utilizzo le parole di don Tonino Bello: «Andiamo fino a Betlemme, come i pastori. L’importante è muoversi. E se invece di un dio glorioso, ci imbattiamo nella fragilità di un bambino, non ci venga il dubbio di aver sbagliato percorso. Il volto spaurito degli oppressi, la solitudine degli infelici, l’amarezza di tutti gli uomini della Terra, sono il luogo dove Egli continua a vivere in clandestinità. A noi il compito di cercarlo. Mettiamoci in cammino senza paura».

Sorelle e Fratelli carissimi, lasciamoci raggiungere dalla grazia del Natale, per avanzare, insieme al Dio-con-noi, sulle vie della comunione e della pace, promesse a “tutti gli uomini che Egli ama” (Lc 2,14).

Prendiamo, come Maestra, per vivere un “Natale di prossimità”, Maria: Madre del Verbo-fatto-uomo. Lei - come afferma Papa Francesco - «sa trasformare una grotta per animali nella casa di Gesù, con alcune povere fasce e una montagna di tenerezza. Lei è la piccola serva del Padre che trasalisce di gioia nella lode. Come una vera madre, cammina con noi, combatte con noi, ed effonde incessantemente la vicinanza dell’amore di Dio» (EG, n. 286). Avendola come Compagna di viaggio, impareremo dal Signore, che si è fatto nostro “Amico” (cfr. Gv 15, 14-15), ad essere veri “amici” di tutti (specie degli ultimi!) e a diventare anche “buoni amici” di noi stessi, testimoniando che, con la nascita di Gesù, il Cielo è sceso sulla terra e la terra, in Lui, è diventata Casa del Cielo.

Vi abbraccio uno ad uno, con affetto fraterno, chiedendo allo Spirito Santo la luce e la forza per inoltrarci, insieme, nel “Natale di prossimità”: da autentici credenti e da cittadini degni del Vangelo (cfr. Fil 1,27).

Giuseppe Card. Petrocchi

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