-Mamma, mi fa male la pancia
-Mmmm, di nuovo?
-Sì
-Sei sicuro che sia un mal di pancia?
-Mi sento una cosa qui (si tocca la bocca dello stomaco)
-Vieni qua (lo metto a sedere sulle gambe e lo massaggio un po’)
-Forse è meglio che resto un altro giorno a casa. Se poi vado a scuola e mi viene da vomitare?
-Mi chiamano, lo sai. Secondo me non ti viene da vomitare. Lo sai che qualche volta pensiamo di avere mal di pancia e invece abbiamo un po’ di paura o di tristezza? Lo sai che anche le emozioni, le sentiamo nella pancia, proprio qui? Chissà… chissà che tu non possa avere un po’ di paura o di tristezza, forse. Ricordi quando a scuola dell’infanzia avete fatto il lavoro sulle emozioni?
-Mamma, io ti voglio
-Sono qui
-Mamma, tu mi manchi
-Quando sei a scuola, dici?
-Sì
-Anche a me manchi, durante la giornata, ti penso sempre. Però è normale… tu vai a scuola, io a lavoro e poi stasera ci vediamo e ci facciamo tante coccole
-Sì!
-Va meglio?
-Sì
-Allora lo vedi? Secondo me stavolta non era un mal di pancia ma un po’ di tristezza che ti si era posata proprio qui, sulla bocca dello stomaco… capita… poi, passa.
Passa. Sono importanti le parole e sono importanti le emozioni, non solo perché colorano, definiscono e qualificano le sfumature delle nostre esperienze ma anche perché rivestono una funzione biologica che è protettiva per l’essere umano. Esattamente il contrario di quello che un superficiale senso comune ci porta a ritenere: le emozioni non ci rendono fragili e vulnerabili, non ci mandano in frantumi quando le proviamo. Tutt’altro, ci proteggono. Hanno una funzione adattiva oltre che evolutiva.
Eppure, ne converrete, ci sono emozioni socialmente accettate e addirittura ostentate, nella nostra epoca di immagine, apparenza e socialità 2.0; altre, che si fa fatica a condividere o di cui talvolta ci si vergogna, per il timore di essere derisi, additati o messi all’angolo, rispetto a quanti si rivelino essere sempre e comunque dei vincenti. È questo il mantra che ci viene iniettato sotto pelle in un’epoca in cui l’Essere (anche frangibili) ha lasciato il posto non più e non solo all’Avere ma all’apparire, ostentando anche quel che non si ha e che non si è. Vietato mostrare tristezza. Non va di moda, non le lasciamo molto spazio nemmeno quando sarebbe necessario potersi prendere un tempo per viverla e lasciarla passare, come sarebbe lecito fare nell’elaborazione naturale (non patologica) di un lutto, per esempio. Complicato relazionarsi con la rabbia, propria e altrui. Vi stupireste nel sapere quante persone chiedono un aiuto terapeutico proprio per la gestione della rabbia che brucia nel basso ventre, per controllare quegli agiti che temono anche quando mai accaduti, per fare la pace con quella costante sensazione di essere sul punto di esplodere.
Un discorso a parte merita la paura, una sorta di cerniera tra le emozioni assolutamente negative e quelle socialmente tollerate, anche in virtù del fatto che è conosciuta e democraticamente diffusa sotto forma di quel che comunemente definiamo ansia. Sopportata, combattuta o accompagnata dai tanti che ci convivono con quelle goccine o pasticchette ritenute irrinunciabili.
Eppure, prima ancora di diventare puntello di una psicopatologia, la paura è un’emozione naturale quanto le altre e si rende necessaria davanti a pericoli reali, consentendoci di attivare quelle reazioni conservative di attacco o fuga che sono sostenute da tutte le modificazioni neurofisiologiche che conseguono ad uno stato di allarme e che sottostanno alla possibilità di fronteggiare un pericolo oppure di evitarlo, scappando. Al contrario, diventa pericolosa per noi e per la nostra stessa incolumità quando le medesime reazioni di allarme risultino inadeguate, disadattive, patologiche, faticose da sopportare per la psiche ed il corpo perché il pericolo è inesistente, solo immaginato o anche percepito in modo incongruo, rispetto a quel che realmente è.
Orribile da provare per chi la prova, la paura può diventare angoscia che toglie il respiro, mette un groppo alla gola, accelera i battiti cardiaci, provoca sudori gelati, toglie lucidità di pensiero e di azione e ancora, abbassa le difese immunitarie, abbassa la temperatura corporea, mette in tensione la muscolatura provocando contratture che sono dolorosissime quando non ci sia nessuna reale necessità di attacco, aumenta la motilità intestinale, secca la bocca, offusca la visione, offusca i pensieri (“sto per morire”) o li blocca in (corto) circuiti di ricorsività ad esito sempre negativo o infausto.
Un’emozione, la paura, alla base di tante psicopatologie che variano nelle forme espressive ma che hanno un punto in comune: si può reagire ad un pericolo che non c’è, che viene sovrastimato o mal discriminato nella sua percezione o che viene riattivato da uno stimolo che assomiglia a qualcosa che si collega variamente alla storia individuale e spesso a dei traumi vissuti realmente. Proprio per questo, spesso non bastano gli ansiolitici a curarla, proprio per questo quando la paura è angoscia patologica sarebbe necessario affiancare ai farmaci -che si prendono anche con una certa leggerezza- dei percorsi mirati di psicoterapia.
Chiedete aiuto qualificato, se vi accorgete che la paura, da emozione naturale e assolutamente legittima, oltrepassa la soglia di tolleranza impattando pesantemente sul vivere quotidiano, rendendo vittime di un mostro che divora e condiziona dall’interno. Chiedete aiuto ad uno specialista, soprattutto adesso.
Dietro al diffondersi planetario del Covid-19 c’è qualcosa che non riguarda solo la salute del corpo, cui teniamo -ancora e ahinoi- molto più che alla salute della mente, a volte anche a discapito di quest’ultima. Ci sono tutti quegli aspetti collegati alla gestione e comunicazione delle informazioni e dei rischi e alla percezione che i cittadini ne hanno o che ne potrebbero avere. Quel che va evitato -da queste parti lo sappiamo meglio che altrove- è di incorrere in quei pericoli, entrambi insidiosissimi, della rimozione della paura/sottovalutazione del rischio e dell’allarmismo esasperato/panico.
Come ce la siamo cavata finora, a livello nazionale? Male. Direi molto male. Perché ad una prima gestione sommaria, minimizzante e vaga delle informazioni relative alla diffusione del virus, che ha condotto anche ad episodi di razzismo veri e propri, sono seguite delle comunicazioni allarmistiche che hanno cavalcato la paura inducendo altri bisogni: di informazioni -convertendosi in click per alcune testate on-line e audience per alcuni programmi televisivi; di approvvigionamento di presidi sanitari, che non servono ai sani bensì ai malati; di approvvigionamento di derrate alimentari, il cui reperimento mai è stato messo seriamente in discussione.
Già anni fa, il sociologo Zygmunt Bauman ci ha magistralmente insegnato come la paura, un’emozione naturale e sana, possa facilmente trasformarsi in un veleno che viene inoculato sotto pelle, strumentalizzato e cavalcato, amplificato e talvolta indotto e costruito, a discapito delle masse, di un presunto nemico o a vantaggio della società del consumismo all’interno della quale anche la salute rischia di diventare un bene di consumo e non diritto da garantire a tutti.
Quanto è facile ammalarsi di paura? Quanto è possibile che emergenze sanitarie reali ci vengano vendute come incontenibili epidemie fuori controllo nell’epoca dell’infodemia (è stata definita così l’enorme disponibilità di informazioni cui siamo esposti, divenendone facilmente vittime)? Quanto una scarsa o nulla considerazione per gli aspetti psicologici ed emotivi che sono in ballo è potenzialmente dannosa, quanto va a peggiorare lo stato di salute di chi già si confronta con delle psicopatologie che sulla paura si poggiano e prendono corpo (pensiamo agli ansiosi, agli ipocondriaci e agli agorafobici, a chi si trovi a combattere con gli attacchi di panico, agli ossessivo-compulsivi che già lavavano le mani decine e decine di volte al giorno, fino a spellarle)? Quanto è alto il rischio che la massa attivi dei comportamenti fuori controllo, potenzialmente dannosi per tutti e ancor più per le cosiddette “categorie a rischio”? Quanto è alto il rischio di una dispercezione che alteri l’esame di realtà, rendendo i comportamenti della massa, prima ancora che quelli dell’individuo, potenzialmente folli? Molto, molto alto.
Il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi ha diffuso un vademecum atto a spiegare come sia facile che la paura diventi panico e quanto sia importante mantenersi lucidi e proteggersi con comportamenti adeguati ma anche con pensieri ed emozioni sane. C’è una pretesa di controllo emotivo in tutto questo? La semplicistica idea che si possa ingabbiare entro comportamenti e sentire predefiniti quello che spontaneamente si muove nell’individuo? C’è l’idea che razionalizzare basti a controllare anche quel che è spesso irrazionale o apparentemente al di fuori di ogni logica? No, non necessariamente.
Sono favorevole all’idea che la salute mentale passi anche attraverso quella psico-educazione che, seppur non risolutiva, è comunque necessario diffondere in termini di buone pratiche e richiami alla razionalità che sono protettivi davanti a delle informazioni che facilmente ci invadono e che potenzialmente ci angosciano, se non gli diamo una forma o se non troviamo il modo di filtrarle, discernendo. Con tutta la cautela del caso, chiaramente.
Anche l’Associazione EMDR Italia che si occupa di psico-traumatologia e che è intervenuta in varie emergenze nazionali ed internazionali, ha diffuso in questi giorni delle linee guida operative che aiutino cittadini, insegnanti, genitori e professionisti della salute mentale a contenere i rischi di una traumatizzazione collettiva legata ad una percezione del rischio che sia disallineata rispetto ai dati oggettivi in nostro possesso. Linee guida che contengono preziose informazioni su quanto sia fondamentale mantenere il più possibile la propria routine; su come gestire le comunicazioni con i bambini -che vanno informati, con contenuti veri e modulati rispetto all’età ma anche rassicurati dalle figure di accudimento e protetti dalla “sovraesposizione a immagini e notizie non adatti al loro livello di comprensione”; su come limitare il rischio che la continua ricerca di informazioni mantenga il sistema nervoso in un costante stato di eccitazione ed allarme, alimentando circuiti di pensiero ossessivi (nello specifico, limitare temporalmente l’accesso alle informazioni in pochi momenti della giornata e contenere numericamente le fonti, ufficiali ed attendibili, da cui ci si tiene al corrente è una buona strategia autoprotettiva).
Moriremo tutti, questo è certo. Moriremo di qualcosa o a causa di qualcosa, non sappiamo quando e in molti casi nemmeno di che ma siamo in grado, ve lo assicuro, di dimenticarcene per lunghi istanti, in una forma di oblio -chiamatela pure rimozione, se preferite- che ci consente di vivere la maggior parte del nostro tempo senza angosciarci per una fine che potrebbe essere prossima o magari no. Ed è proprio questo a renderci diversi rispetto a chi quotidianamente combatte contro una malattia cronica, degenerativa e/o potenzialmente mortale, diversi rispetto a chi sente la morte più presente nella propria quotidianità oppure drammaticamente prossima e fa di certo più fatica di altri a dimenticarsene.
Il Covid-19 ci sta esponendo non solo alla paura di ammalarsi -nell’80% dei casi si ha una forma moderata e si guarisce (Ministero della Salute) - ma alla paura di morire che, mi sembra di poter affermare con pochi dubbi, ha contagiato numericamente più persone del virus stesso. Una paura ancestrale e fondata -quella della morte- che dovrebbe farci venire una gran voglia di vivere e che, invece, rischia di attivare una serie di comportamenti che diventano paradossali se al fine di proteggersi si evita la vita stessa.
Non parlo del necessario isolamento che è toccato a quanti abbiano avuto la necessità di sottoporsi a quarantena precauzionale o curativa, parlo della tendenza di molti individui sani a vivere una vita schermata, protetti da mascherine che non servono ai sani ma a chi è già malato e combatte anche altre patologie; una vita in cui un tempo troppo grande viene sprecato a torturarsi con pensieri negativi e ridondanti o viene spesa a cercare ossessivamente tutte le informazioni accessibili -non sempre attendibili- al solo fine, spesso, di confermarsi quei pensieri negativi e quelle credenze che si hanno già, in un’ottica spesso catastrofista. Una vita schermata rinunciando a teatri, locali pubblici, eventi mondani, concerti, socialità, rinunciando -troppo facilmente anche quando non strettamente necessario- al sacro diritto dell’istruzione. Una vita schermata passata ad odiare gli untori o presunti tali, vomitando i propri improperi e la propria rabbia sui social network. Una vita passata a risparmiarci.
Proprio i malati, realmente bisognosi di mascherine e cure, ci hanno ricordato quanto anelino alla vita e quanto sciocchi siamo a proteggerci da essa. Proprio i figli di alcuni anziani morti a causa del sopraggiungere del contagio da Coronavirus si sono trovati a doverci ricordare che la vita è vita sempre, anche nella terza età. Proprio artisti, musicisti ed attori si sono susseguiti in appelli pubblici che scongiurassero il pericolo di teatri vuoti, ricordandoci quanto abbiamo bisogno dell’arte e della cultura per sopportare il nostro essere finiti e mortali.
Tanti di noi hanno avuto fame di bellezza, trovandosi con chiese e musei chiusi. Tanti di noi hanno avuto fame d’aria, trovandosi nell’impossibilità di uscire di casa. Tanti di noi hanno avuto fame di relazioni umane, alla sola idea di trovarsi con il coprifuoco di bar che chiudono alle 18 o che non aprono proprio. Nell’impossibilità di un abbraccio vero. Gli effetti sulla psiche sono devastanti. Per non parlare, in questa sede, dei disastrosi effetti sull’economia.
La diffusione del virus va evitata, siamo tutti d’accordo e per questo dobbiamo usare le necessarie precauzioni ed il buonsenso. Tuttavia, probabilmente, la sua diffusione è servita a farci capire quanto facilmente siamo esposti al rischio di essere contagiati dal virus della paura patologica e al rischio di morire anzitempo. O quanto in grado siamo di mantenerci lucidi e continuare a vivere, finché avremo l’opportunità di farlo. Ché in fondo, come ci ricorda Michel Foucault, “non moriamo perché ci ammaliamo ma ci ammaliamo perché fondamentalmente dobbiamo morire”. Più poi che prima, possibilmente.
* Ilaria Carosi, psicologa e psicoterapeuta