Mercoledì, 24 Aprile 2013 01:10

Golgota, in lotta con il vangelo: il nuovo libro di Chiappanuvoli

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“Ero cattolico, non lo sono più dalla prima adolescenza” scrive Alessandro Chiappanuvoli nella breve nota al suo golgota (2013, Zona editore). La frase contiene a mio avviso la più efficace chiave di lettura d’un’opera singolarissimae inclassificabile.

Cos’è infatti golgota? Una silloge? Un poema? Un racconto visionario? Il diario d’un’anima lacerata? Come ogni testo che possegga l’ambizione d’azzerare tutto e ricominciare tutto daccapo, come ogni brano apocalittico, golgota risulta allergico agli schemi. Certo racchiude, oltre all’ambizione di cui sopra, anche un’immensa umiltà; l’umiltà d’affermare da poeta che “la poesia/non spezza la croce” e che “la poesia non salva nessun uomo nessun uomo è salvato dalla poesia”; un’umiltà direi cristiana, francescana – ed è proprio il cristianesimo la pietra d’inciampo, qui, a dispetto o proprio a causa degli avvisi dell’autore, il quale intitolò la sua opera prima – un incandescente reportage su Terzigno – Lacrime di poveri Christi

C’è insomma, dritta al cuore della poetica di Chiappanuvoli, una fortissima tensione all’eredità cristiana, una tensione che diventa rifiuto o accusa o urlo, ma che non perciò è meno urgente e decisiva. Del resto basta scorrere le stelle polari cui golgota guarda per rendersi conto che Chiappanuvoli scrive sotto un giogo di formidabile pregnanza emotiva oltre che estetica: i Vangeli, Nietzsche, Celan, Rimbaud, Cioran, e ancora Leonardo e Caravaggio, Tiziano e Dante, la Genesi e Dostoevskij. Ci troviamo cioè in un’area mistica piuttosto che letteraria o artistica – la letteratura non serve, non incide sulla vita, Chiappanuvoli non sta facendo letteratura ma sta cercando un varco, sta distruggendo, sta seminando dinamite e sta scappando e al contempo sta affermando una possibile, incendiaria alternativa; e appunto l’atmosfera psichica vibrante, sempre sull’orlo della rottura, è la caratteristica peculiare di golgota. 

Una lingua scabra all’eccesso, che pare intagliata nel legno o nella pietra, come se Chiappanuvoli scrivesse con le unghie e coi denti, presso uno stato basico, elementare e dunque purissimo dell’esistenza. Le parole più ricorrenti del suo lessico sono chiodo, spina, croce, corpo, vuoto, pietra, acqua (l’elemento purificatore che scioglie finanche le più infauste angosce), e quindi un ritorno all’essenziale, alla materia che diventa, al fondo della propria essenza, vita, vita vera. L’ateismo di Chiappanuvoli possiede qualcosa di “sacro”, di concretamente metafisico – la “rugosa realtà” di rimbaudiana memoria; lui stesso parla, nella poesia il Cristo velato, di “neoumanesimo”; e in Paradiso afferma: “non c’è alcun premio/ dono l’aldilà/ è così/ il paradiso è qui/ angeli siamo/
noi/ un’unica cosa meravigliosa/ miracolo.” E ancora, in resurrezione: “Dall’altro lato/ troverai solo te stesso/ oltre la fede/ è la verità dello spirito santo.” golgota vuole spingersi oltre la fede, certo, e lo spirito santo è scritto con le iniziali minuscole, e la religione cattolica vi si trova, pur nel rispetto che le si deve, sotto accusa.

Ma cos’altro sarebbe golgota, questo furibondo sforzo di (ri)mettere al centro del discorso l’uomo, la dignità umana, la grandezza umana pur nella piccolezza, pur nella miseria, pur nell’atroce sofferenza, se non una specie di rinnovato slancio ascetico? Cos’altro sarebbe il “neoumanesimo” se non l’affermazione quasi apodittica d’una fede che, dalle esauste ceneri della vecchia, spalanca i suoi verdissimi rami?

In sostanza l’iter di Chiappanuvoli è concentrico: negando afferma, affermando nega. Molte delle trentatré liriche (suddivise in tre grandi sezioni: padre, figlio, spirito santo) recano più o meno a metà una riflessione che oscilla fra logica, filosofia e teologia, in cui il movimento è ciclico ma anche dinamico, e sancisce di continuo l’annientamento e il ricominciamento che da quello s’origina: “Sull’angoscia della morte hai fondato il potere della menzogna la menzogna del poterefonda la morte dell’angoscia.”

Qui, dove il respiro di Chiappanuvoli si tramuta in discorso, dove l’istinto lascia il posto all’intelletto, dove l’autore abbandona in parte l’icasticità e l’inafferrabilità della poesia per distendersi nell’argomentazione razionale il calor bianco del libro cede un poco; golgota non è teoria ma pratica, non è un manuale di sopravvivenza ma una mappa per perdersi e magari, a caro prezzo, ritrovarsi. golgota al proprio meglio è, macbethianamente, ciò che non è. E infatti il canto torna drammatico nella felicità delle inversioni e nell’autorità dei chiasmi e delle contraddizioni, oppure nella semplice e ulcerante potenza delle immagini (“il pane s’allaga/ di papaveri nel grano”, “affoga/ chi non è sulla croce”, “madre i tuoi occhi/ piantati nei chiodi”, “ecco/ i nostri figli/ i figli della terra/ vedi già/ camminare sulle acque”); è in simili passaggi che golgota dispiega l’intero potenziale, un potenziale esplosivo fino alla provocazione, alla blasfemia e alla bestemmia: “dio è un assassino/ tu figlio sei suo padre” (la corona di spine), “Eretta la croce/ nessun me sia” (Golgota), “Il vero padre/ padre non è” (il vero padre), “Spezzate tutte le spine/ restano/ dove devono/ dentro la carne” (paradiso). golgota è in definitiva il coraggioso rovesciamento d’un’ottica millenaria, il sovvertimento di certezze in parte stantie, in parte colpevoli d’essersi adagiate e aver cristallizzato le sconvolgenti novità di Cristo in una galera di bugie e di conformismo; ed è, come le poche opere che posseggono l’ardire di misurarsi con il Libro, un oggetto che manda fuori le scintille celesti della battaglia.

di Enrico Macioci

Ultima modifica il Martedì, 22 Ottobre 2013 15:41

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