di Stefano Palumbo* - Erano gli anni del dopoguerra, un’Italia in ginocchio sperimentava le conseguenze di una durissima crisi economica postbellica.
È qui, in questo contesto, che si colloca una pagina di storia dimenticata eppure straordinariamente bella, quella dello sciopero a rovescio, una forma di lotta, nata in ambiente contadino e poi propagata nei centri urbani, che consisteva nel cominciare a costruire un’opera per poi chiedere il pagamento del lavoro effettuato, o meglio ottenere che l’opera venisse finanziata o appaltata. A rovescio poiché si lavorava per avere un lavoro.
Una storia di disoccupati e poveri contadini che decisero di prendere in mano il proprio destino e dare concretezza alle parole scritte nella neonata Costituzione rivendicando i diritti in essa sanciti.
Di lì ad un decennio l’apice del boom economico del miracolo italiano. Nel mezzo il Piano del Lavoro lanciato al Congresso di Genova (ottobre 1949) dal segretario della CGIL, Giuseppe Di Vittorio, per una piena occupazione nell’ambito di un progetto generale di politica economica, agricola, industriale ed energetica da realizzare con il concorso di tutte le risorse umane del paese, in primis dei giovani costretti fino ad allora ad emigrare lasciando il paese natale e la propria famiglia.
Sono passati 70 anni, è cambiata la società e, profondamente, anche il mondo del lavoro, una trasformazione accelerata violentemente dagli effetti devastanti della pandemia. Resta però la lotta, oggi come ieri ancora “a rovescio”, dei lavoratori autonomi che rivendicano il diritto al proprio lavoro, ad esercitare quelle attività limitate da più di un anno di inevitabili e necessarie restrizioni. O la lotta silente di milioni di cassaintegrati.
Lotte che, a causa dell’emergenza sanitaria, entrano spesso in cortocircuito con i diritti già acquisiti, come ad esempio quelli legati alla qualità e alla sicurezza sui luoghi di lavoro, rispetto ai quali mai si dovrebbero indietreggiare.
Come attuale sembra il riproposi di un’azione di rilancio socioeconomico, affidato oggi al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, uno strumento costruito con l’ambizione di portare l’Italia fuori dalla crisi causata dalla pandemia, ma anche di risolvere le tante debolezze strutturali del nostro sistema Paese. Un piano, almeno nelle intenzioni, rivolto alle nuove generazioni, alle opportunità che solo un Paese capace di coniugare giustizia sociale, ambiente e innovazione, potrà offrire loro. E ancora, la piena occupazione, non può essere un romantico ricordo ma un obiettivo a cui tendere ancora oggi, ben consapevoli della crescente necessità di competenze iperspecializzate nei settori ad alto contenuto innovativo, ma anche dell’esigenza, altrettanto evidente, di far coincidere la tutela dei lavoratori più fragili, meno scolarizzati, con il grande lavoro di cura e messa in sicurezza di cui tutto il territorio nazionale ha estremo bisogno.
La storia ci insegna che proprio all’indomani dei momenti più difficili la nostra civiltà è stata capace di concepire i progetti e le visioni migliori. La sfida che abbiamo oggi davanti non si vince, però, senza la lotta per il diritto di ogni uomo a rendersi utile per la propria comunità, per accrescerne benessere, competenze e felicità.
Buon primo maggio.
*Stefano Palumbo, capogruppo Pd