“Se ci fosse luce sarebbe bellissimo” questa è una delle frasi che più emozionano e struggono di quell’ultima lettera scritta da Aldo Moro, destinata ad Eleonora Chiavarelli sua moglie.
Era il 16 marzo del 1978, 45 anni fa , quando l’onorevole Aldo Moro da giovanissimo padre costituente, già Presidente del Consiglio e Presidente della Democrazia Cristiana veniva rapito a Roma in via Mario Fani, luogo in cui furono sparati ben 90 colpi di pistola.
Da quel giorno e dai 55 che gli seguiranno fino al brutale assassinio del 9 maggio, la politica è rimasta profondamente segnata così come la società. Ognuno di noi, anche se inconsapevolmente è figlio di quanto accaduto o comunque ne sconta gli effetti sulla sua pelle.
Quel 16 marzo era il giorno del voto di fiducia al IV governo Andreotti e quel mondo diviso fra URSS e USA, quella prima Repubblica fatta di statiti e di affaristi si concludeva con una pagina buia fatta di ombre sulla pelle di un uomo posto come spettacolo dinanzi al pubblico ludibrio.
Quei 55 giorni e quel sequestro sono stati raccontati in mille modi, dai quotidiani di quei giorni, dagli intellettuali del tempo e dai protagonisti stessi della vicenda, ma l’Affaire Moro, per riecheggiare Sciascia, continua ad aleggiare come uno spettro, come un qualcosa di accaduto ma non accaduto, un qualcosa di subito, come un tumore che si fa finta di non avere, come una malattia che si vuole ignorare ad ogni costo. Già perché ciò che accadde in quei due mesi scarsi non racconta solo una storia di terrorismo bensì le vicende, i limiti e le caratteristiche di un intero sistema politico fatto di mortali che non si sentivano tali ma ai quali la morte è venuta a bussare bruscamente alla porta.
Al centro del dibattito di quei giorni, infatti, ci fu proprio la morte, un tema di cui normalmente poco si interessa la politica; infatti, nella vita quotidiana la morte è un qualcosa di intimo, privato che rimanda alla dimensione domestica e familiare. Un tema che non merita di essere gettato in pasto al pubblico ma che viene custodito religiosamente.
In quei giorni c’era chi chiedeva la pena di morte per i terroristi, chi chiedeva di salvare ad ogni costo Moro, chi non era disposto assolutamente a trattare e a pagare e chi invece condannava ma gridava “né con lo stato né con le Br”.
Morte e vita, momenti così essenziali ma così lontani da noi. Ogni giorno, infatti, parlamenti e consigli sono chiamati a deliberare e discutere su quanto accade in mezzo a questi due momenti, mentre in quel giorno il grande statista, una fra le figure di spicco di quel parlamento, il professore, l’annunciato presidente della Repubblica, almeno a detta di Pertini, come in una caduta degli dèi veniva scaraventato oltre la realtà.
Chi non ha vissuto quegli anni magari li vive con quella suggestione e quel fascino che si riserva a ciò che non ci è capitato, a ciò di cui siamo spettatori. Chi è venuto dopo non può ricordare dove si trovava quando è giunta la notizia del rapimento Moro, non può risentire nella testa la voce di Bruno Vespa che irrompe con un’edizione straordinaria. Il Moro che è nell’immaginario delle generazioni che non c’erano è molto più simile al Giffuni di “Sanguina ancora” che all’uomo vero di carne e ossa. Per tutti questi motivi la visione che si ha di questa vicenda e di quest’uomo è inevitabilmente lontana e a posteriori, frutto di narrazioni mediate e rintracciate in libri, documentari e podcast, o passate di bocca in bocca da quell’archivio storico originale e quotidiano che è la famiglia e la trasmissione orale delle persone comuni che invece il ricordo di quei giorni lo possiedono.
Da questo punto di vista impreciso e magari approssimativo il dubbio che sorge è quello che magari può apparire banale e ripetitivo, ma che resta un passaggio obbligato, è infatti inevitabile chiedersi se da tutto ciò c’era una lezione da imparare e se quella lezione è stata imparata.
In quei 55 giorni, senza vite indiretta, senza “Chi l’ha visto” e Tv del dolore l’intero paese si è trovato a guardare la caduta di un uomo, la sua spoliazione, il suo passaggio dall’immortalità alla mortalità come un Ecce Homo.
Vedere la foto di quel democristiano con la barba incolta, sconvolto e rassegnato a quanto accaduto non può non colpire. Come non possono non colpire le parole del senatore DC Carlo Bo sul Corriere della Sera solo un anno dopo la morte di Moro:
“La tragedia Moro avrebbe dovuto essere un momento della nostra coscienza comune, oggi sappiamo che non lo è stata, anzi abbiamo il sospetto che si sia fatto il possibile perché non lo diventasse.”
E con ancor più amarezza colpisce un'altra frase del senatore DC:
“Va detto che se Moro è vissuto da solo lontano da tutti, Moro è morto da solo ma davanti a tutti”.
Da queste immagini e da queste parole, da questi fatti e da quanto accaduto avremmo potuto imparare un modo diverso di fare politica, di dibattere, di guardare l’altro a qualsiasi livello, avremmo potuto imparare a dare un valore diverso alla vita, ma anche ad aver maggior giudizio nella scelta delle persone, avremmo potuto reagire con la voglia di ripulire le nostre coscienze da queste ombre così come di ripulire il paese dalle ombre che lo sovrastavano. Già perché la vicenda Moro, che guardiamo con i nostri piccoli occhi mortali, è costellata proprio da ombre, nel suo racconto come negli effetti prodotti, tanto da farsi essa stessa ombra nella storia e ombra nel presente.
Non ci resta che dire “se ci fosse luce sarebbe bellissimo”.