Enrico Macioci ci parla di Hart Crane, una delle figure poetiche più importanti del Novecento americano.
Nato a Garretsville, nell'Ohio, nel 1899 (lo stesso anno e lo stesso giorno di Ernest Hemingway), Crane fu un poeta irrequieto e tormentato. Influenzato da Yeats e da Pound, ma anche da Whitman e dai simbolisti francesi, pubblicò in vita solamente due libri, fra cui Il ponte (in inglese The bridge, titolo che si riferisce al celebre ponte di Brooklyn), il suo capolavoro. Morì suicida (proprio come Hemingway), a soli 33 anni, gettandosi da una nave nell'Atlantico.
Nel cuore di tenebra della modernità c’è una luce breve, abbagliante: Hart Crane. Non conosco nessun grande poeta più sottovalutato, e anzi ignorato, dalla critica italiana; eppure si tratta forse del più vigoroso talento lirico americano del ‘900, migliore di Wallace Stevens, T. S. Eliot o Robert Frost, alla pari con mostri sacri dell’800 quali Walt Whitman ed Emily Dickinson.
Crane appartiene alla schiera ristretta e sotterranea (che percorre come un filo rosso la modernità) dei poeti orfici, visionari, che attraverso la scrittura reinventano la vita e al tempo stesso corteggiano la morte; la sua coscienza non fu abbastanza solida per reggere l’urto d’una immaginazione apocalittica, ed egli si tolse la vita a soli trentadue anni gettandosi dal ponte d’una nave nelle acque del Golfo del Messico; il suo corpo non fu mai ritrovato. Era nato, curiosamente, lo stesso giorno, mese e anno (21 luglio 1899) d’un altro significativo scrittore statunitense che terminerà i propri giorni suicida, Ernest Hemingway.
Crane pubblicò dapprima una raccolta di liriche intitolata "Edifici bianchi", nel 1926; quindi nel 1929 ecco il suo controverso capolavoro, il poema epico "The bridge" (Il ponte), sul quale aveva lavorato fin dal 1923, centrato sulla figura (reale e archetipica assieme) del ponte di Brooklyn.
Nonostante le vette raggiunte dal testo, Crane non seppe sottrarsi a un’angosciosa sensazione di fallimento; ne "Il ponte aveva voluto", con smisurata ambizione e sforzo titanico, riunire antico e moderno, mito e progresso, mistica e scienza, sacro e profano, metafisica e macchina, e tentato un attraversamento della modernità industriale che sfociasse in un nuovo modo di vivere, ugualmente a contatto con la parte religiosa e con quella materiale dell’esistenza. Il poema regge l’impresa solo a tratti, e Crane non se lo perdonò. La sua preoccupazione non fu letteraria bensì esistenziale; gli sembrò, come un novello Lord Chandos, di non possedere più le parole per dire il vero.
Il secolo scorso è del resto costellato da figure poetiche tragiche, che si giocano tutto nell’opera staccandosi brusche da ogni accademia, da ogni vuoto ancorché brillante formalismo; pensiamo a Georg Trakl, a Paul Celan, a Dylan Thomas, a Marina Cvetaeva, a Dino Campana, a Vladimir Majakovskij solo per citarne alcuni, e non sarà un caso che queste parabole terminino sistematicamente col suicidio o con la follia, come se appunto il demone creativo esigesse, in cambio della visione limpida e addirittura profetica, un prezzo salatissimo da pagare.
Crane, nonostante il tormento che da sempre lo accompagnò e nonostante la drammatica fine, è un poeta che spera. “E quindi osserva mentre la tenebra, viso di scimmia, svanisce,/ e gradualmente gli edifici bianchi rispondono al giorno.” Ma la sua speranza non è affatto semplice o banale, e di conseguenza la sua poesia è aspra, tortuosa, criptica, e però capace d’un tratto d’aprirsi in immagini d’incantevole armonia: “Abbiamo visto la notte sollevata, tenuta/ stretta fra le tue braccia. Attesi/ presso i piloni e sotto la tua ombra;/ solo nel buio la tua ombra è chiara.”
Il problema del suo misticismo, mai risolto né integrato in una dottrina o in un pensiero coerente, riemerge nei luoghi più impensati e costituisce, ritengo, l’ostacolo più arduo a un’esatta interpretazione dei suoi brani: “I delfini giocavano ancora, arcuando l’orizzonte, ma solo/ per costruire le memorie delle porte dello spirito.” La speranza torna sempre, dostoevskianamente, a dispetto del pessimismo della ragione.
Al netto dei nodi, dei garbugli e persino delle deviazioni inutili, da cui pure non fu esente, nei momenti di maggior impatto Crane ci ha tuttavia regalato versi di potenza esemplare, ineguagliata: “ Oh Tu conoscenza d’acciaio, che col tuo balzo impegni/ gli agili limiti del ritorno dell’allodola;/ entro la cui ampiezza simile a un laccio costretto/ in singola crisalide i molti duplici cantano –/ trafittura di stelle, focosità di stallone,/ e come un organo, Tu, con suono di condanna, - Tu/ e vista e suono e carne conducesti dal regno del tempo/ come l’amore che indica al timone la direzione esatta.”
Forse a Crane mancò, sul più bello, una qualche forma vitale e salda di fede, un appoggio; cosicché avventurandosi nelle più remote contrade si sentì d’un tratto solo, e smarrito, e troppo debole. Del resto è lui medesimo a cantare rivolto all’acciaio di Brooklyn che, muto e gigantesco, non ricambia lo sguardo: “Oh insonne come il fiume sottostante/ tu che scavalchi con un arco il mare/ e la zolla sognante delle praterie, slànciati/ verso le nostre bassezze, e qualche volta scendi,/ e con la tua curvatura presta un mito a Dio.”
Ps: è sintomatico che di Hart Crane sia quasi impossibile trovare, in libreria o su internet, dei testi. Io posseggo l’opera omnia (peraltro esigua) in edizione Guanda, collana Fenice, a cura di Roberto Sanesi, datata 1967…