Domenica, 19 Maggio 2013 04:46

Secondo incontro della rassegna “Oltre i muri”. La legge Basaglia 35 anni dopo

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Si è svolto nel pomeriggio di venerdì 17 maggio al Muspac, il museo sperimentale d'arte contemporanea, a Piazza d'Arti, il secondo dei tre incontri del ciclo “Oltre i muri” , rassegna di mostre, confronti e docu-film sui temi delle carceri, dei manicomi e di quelli che il sociologo Erving Goffman definiva istituzioni totali.

La rassegna è inserita nel cartellone di eventi Il sabato del cratere.

Nell'appuntamento di venerdì si è parlato del 35° anniversario della legge 180, meglio nota come legge “Basaglia”, che nel 1978 dispose la chiusura dei manicomi a favore dell'erogazione sul territorio dei servizi per la salute mentale.

Abbiamo chiesto allo psicologo Emanuele Sirolli, della Fondazione Basaglia, quali sono gli aspetti più attuali della legge, in cosa ha funzionato e in cosa andrebbe migliorata, e qual è lo stato dei servizi territoriali all'Aquila nel post terremoto

Qui di seguito, invece, una riflessione del filosofo Daniele Poccia sul tema oggetto della rassegna


Dai muri alle soglie. Come siamo diventati quello che siamo?

Di Daniele Poccia

Nell’epoca della tele-comunicazione imperante, la funzione del muro si è ampiamente esaurita. Per quanto non manchino oggi i muri che dividono le persone (in Palestina, tra il Messico e gli USA, solo per fare due esempi), tuttavia, si tratta di anacronismi di fronte ai quali non è difficile indignarsi e levare la propria protesta.

A meno allora di non conservare a questa parola un significato prettamente metaforico, ciò che caratterizza invece le società contemporanee ad alto tasso di complessità è un sistema di soglie più o meno invisibili, il cui attraversamento comporta quasi sempre un processo di identificazione e di trasformazione fondato sulla produzione di tracce, registrazioni e avatar della persona. Non che sia un fenomeno del tutto nuovo. La cultura umana si nutre da sempre dell’istituzione delle soglie più diverse (tra un dentro e un fuori, tra il sacro e il profano, tra la natura e la cultura, ecc.).

Ciò che tuttavia costituisce un fattore veramente inedito è il nostro essere diventati insensibili alla loro presenza e operatività. Ci crediamo integralmente liberi perché possiamo muoverci, realmente o virtualmente, spostarci da un paese all’altro con un semplice clic del nostro mouse o salendo su un aereo low cost.

Possiamo attraversare confini una volta invalicabili (tra i sessi, le culture, le ideologie, ecc.). Ma il controllo che si esercita sulle nostre vite non è meno capillare di quello di una volta, incentrato sull’internamento in luoghi istituzionali (carceri, manicomi, scuole, fabbriche). Ad ogni passo che facciamo siamo infatti tracciati e schedati (come accade in particolare sul web).

Si raccolgono informazioni sul nostro conto per comporre profili commerciali e incasellarci in categorie di consumatori. Il check-point è diventato il paradigma di una nuova forma di esercizio del potere che, sebbene più morbida e meno invasiva, non è per questo priva di effetti circostanziati sulla nostra esistenza, sempre più costretta a darsi una forma precisa e riconoscibile in ogni momento del suo sviluppo.

“Sii quello che vuoi, spostati come e dove ti pare, l’importante è mettercene a parte” è lo slogan che risuona segretamente dai megafoni delle odierne società globalizzate.

Questa situazione ci pone di fronte perciò a una duplice esigenza cui il percorso progettato vorrebbe provare a rispondere. Riflettere su cosa è cambiato rispetto a quando i muri ci separavano (tra “normali” e “anormali”, adulti e bambini, proletari e borghesi, rei e innocenti, ecc.) e tentare di capire i motivi dell’anestetizzazione che non ci fa più percepire le soglie che costantemente varchiamo e viviamo distrattamente.

Ancora una volta si tratta di comprendere come siamo diventati quello che siamo per imparare a districarci, senza rimanervi impigliati, nelle maglie del presente.

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