Di Enrico Macioci* - Questa è una dichiarazione di poetica, ragion per cui mi macchierò di numerose parzialità. Del resto comprendere ciò che davvero ci piace, ciò che davvero desideriamo è così decisivo da cancellare qualunque scrupolo. Il traguardo verso cui tendiamo si fa d’un tratto chiaro e ci lasciamo dietro il resto con affetto venato di crudeltà – o forse con crudeltà vagamente affettuosa.
Ho iniziato a seguire il calcio per merito (o per colpa) di Michel Platini, e venticinque anni dopo ho amato d’accesa passione David Foster Wallace; ma solo adesso ho capito perché Platini è meglio di Foster Wallace, e cioè perché la linearità è meglio del cavillo e la linea retta meglio della spirale.
Riannodiamo il filo. Nel 1987 Platini, ancor giovane ma già in calando, si ritira. Splende la stella di Maradona che è l’opposto di Platini: elettrico, maestro d’arabeschi e numeri impossibili. A malincuore lo ritengo, come tanti, superiore a Platini – invece è solo più vistoso. Poi arriva Roberto Baggio, che è un piccolo Maradona. Poi Del Piero, che è un piccolo Baggio; e io di volta in volta m’appassiono scambiando l’apparire per l’essere.
In letteratura è stato pressappoco lo stesso; ci ho messo tempo e fatica per comprendere che la semplicità non è sinonimo di facilità né la complicatezza sinonimo di bravura; e che il talento più puro è quello trasparente, quello che lascia scorgere l’abisso.
Foster Wallace – autore dotatissimo, coltissimo, pirotecnico – è il simbolo della tecnica che si vede; quando lo leggi sei in grado d’osservare tutta una serie di meccanismi che girano, e spesso girano alla perfezione; ma io ho capito che a me non piace osservare i meccanismi, né in movimento né da fermi; io non voglio vedere null’altro che la storia (non la trama, la storia!); non voglio ammirare null’altro che il gioco.
A proposito di gioco, andate su Youtube e regalatevi dieci minuti di Michel Platini (vi consiglio di cliccare su Platini vs Manchester United). Non guardate i gol, guardate i filmati che lo ritraggono in azione durante una partita. Non troverete quasi nessun effetto speciale, solo un’armonia dolce e profonda come un suono di flauti proveniente da un bosco, un suono assoluto e necessario che si fonde con l’atmosfera, le nuvole e il vento.
La grandezza di Platini sta nella coscienza dei propri mezzi e del modo migliore per sfruttarli; lui sa quando lanciare a cinquanta metri e quando a cinque, sa quando dribblare e quando scaricare il pallone, sa quando anticipare e quando invece rallentare; il suo dominio dello spazio e del tempo è totale; il suo raggio d’azione è vasto e preciso e senza falle. Se Maradona è fuoco lui è ghiaccio. Se Maradona si lancia addosso ai contendenti Platini li scavalca col pensiero. Maradona ha bisogno dell’avversario, Platini dell’infinito.
Platini quasi non esiste, è un’astrazione che i difensori non sono in grado di decifrare, infatti pur arretrando fino a settanta metri dalla porta segna come un centravanti e pur segnando come un centravanti sforna miriadi di assist per i compagni. Baresi si dichiara smarrito di fronte a Platini. Maradona confida di provare, osservandolo, un senso di vuoto misto ad ammirazione. Il suo stile è classico per eccellenza; alcune sue reti sono pazzeschi intrecci d’abilità tecnica e coordinazione motoria, non meno di quelle di Cristiano Ronaldo o Messi; ma la sua sapienza è antica e fluisce dalla palla stessa, dall’essenziale bellezza intrinseca alla sfericità dell’attrezzo.
Foster Wallace – proseguendo l’acrobatico parallelismo fra calcio e letteratura – non è Maradona, non possiede lo stesso genio; è un grande autore che non ha saputo o potuto diventare grandissimo; forse se non fosse morto giovane avrebbe sfrondato la propria scrittura (vi sono indizi in tal senso nel postumo e incompiuto Re pallido, o nel breve e bellissimo racconto Brave persone); di certo non ha trovato la chiave per liberare il talento dal cerebralismo, per coniugare istinto e tecnica come faceva Maradona, le cui azioni scriteriate in mezzo a selve di feroci marcatori erano la ragione stessa del suo calcio, la sua dimensione di vita, il solo luogo dove riusciva ad abitare.
Forse Foster Wallace si sarebbe diretto dalle parti dello scarno Hemingway aggiungendovi però la sua cifra personale – quella somma di umorismo, pietà e sensibilità che ne forgiava il tono. Io ammiro tuttora Foster Wallace; Infinite jest è un grande romanzo e alcuni racconti (Per sempre lassù, Caro vecchio neon) sono autentiche gemme.
Forse se si fosse concesso un paio di decenni in più avrebbe migliorato il suo fragile patto col daimon; tuttavia egli non possedeva la follia di Maradona, capace di correre proprio sul bordo del crepaccio, sempre sul punto di cadere eppure senza mai cadere; egli ragionava sul suo daimon anziché agirlo, lo analizzava anziché incarnarlo, lo smontava anziché fonderlo.
Platini però, beh, Platini è un’altra cosa ancora, ed è una cosa che non contempla alcun rischio perché ha trasceso ogni rischio nella suprema sintesi dell’equilibrio.
Questa cosa, io credo, è il segreto infine svelato della semplicità.
*Enrico Macioci, scrittore, è nato all'Aquila nel 1975. E' autore dei romanzi L'alba (ed. Tracce) e La dissoluzione familiare (Indiana editore) e della raccolta di racconti Terremoto (ed. Terre di mezzo). Vive a Salerno.