Tommaso Rovere ha cinque anni e mezzo. Nella calda vigilia di Ferragosto del 2014, resta prigioniero del seggiolino a cui il padre lo aveva assicurato prima di lasciarlo solo in auto, andarsene e venire investito da un pirata della strada.
Rimasto intrappolato nell’abitacolo, ignorato dai rari pedoni che passano vicino alla macchina, mentre lotta contro il caldo, la sete e la fame, Tommaso deve scacciare la solitudine, affrontare le sue paure più profonde, in parte dovute a due genitori egoisti e litigiosi, in piena crisi coniugale, e tenere a bada lo spettro di un compagno di classe violento che vuole strapparlo alla sua visione innocente e candida della realtà. Fino a quando riceve una visita tanto inquietante quanto inattesa, che però, forse, lo salverà.
E’ la trama di Tommaso e l’algebra del destino (edizioni Sem), quarto romanzo dello scrittore aquilano Enrico Macioci*, che segue La dissoluzione familiare (Indiana, 2012) , Breve storia del talento (Mondadori, 2015) e Lettera d’amore allo yeti (Mondadori, 2017).
Sostenuto da uno stile preciso e da un ritmo serrato, Tommaso e l’algebra del destino è un romanzo che ripropone i temi più cari a Macioci, già presenti nei suoi libri precedenti: l’infanzia e l’adolescenza come periodi di estrema fragilità ma anche come serbatoi di esperienze e regno delle possibilità; l’irruzione di elementi angoscianti e terrifici (quello che Freud chiamava “perturbante”) nella vita quotidiana, in ciò che è domestico e familiare; l’ambiguità come essenza della vita e anche della scrittura.
Enrico, avevi definito Lettera d’amore allo Yeti, il tuo precedente romanzo, “un libro sul lutto, sulla perdita e sull’infanzia”. Come descriveresti, invece, Tommaso e l’algebra del destino?
Un libro sulla consapevolezza, sulla mancanza di essa e sulle sue conseguenze: il maestro del karma si mette all’opera e ciò che non capiamo con le buone lo capiamo con le cattive.
Tommaso, il protagonista, è un bambino di cinque anni che però a tratti pensa e ragiona come un adulto. Perché hai deciso di attribuirgli un livello di coscienza più alto di quello che ci si aspetterebbe da un ragazzino della sua età?
Perché l’ho catapultato in una situazione più grande di lui, e avevo bisogno che fosse in grado almeno minimamente di affrontarla da un punto di vista sia emotivo sia cognitivo. Mi rendo conto di avere tirato parecchio la corda, ma ho ritenuto fosse necessario per tenere viva la storia… oltre che Tommaso stesso.
Il romanzo parla anche dei rapporti uomo-donna. I genitori di Tommaso, entrambi persi nei propri egoismi, formano una coppia a un passo dal crollo. Volevi raccontare una storia universale oppure la tua è una disamina riferita all’attualità italiana?
Pur essendo, credo, un romanzo in cui si respira il clima della provincia italiana (nella quale fra l’altro sono cresciuto e vivo), parto sempre dall’ambizione di raccontare una storia universale. Credo, in realtà, che tutte le buone storie siano universali, anche se questo non vuol dire che il mio romanzo sia necessariamente una buona storia…
Uno degli elementi di forza del romanzo è l’incipit - “Il 14 agosto del 2014 Tommaso Rovere, cinque anni e mezzo, fu vittima di tante piccole sfortune che sommate tutte insieme comportarono una sfortuna molto grande” - un inizio serrato e incalzante che dà il là a tutto il libro. Rispetto ai romanzi precedenti, l’impressione è che tu abbia voluto asciugare il tuo stile, sfrondandolo anche da alcune ricercatezze, per concentrarti sulla narrazione. E’ così?
E’ così, in effetti. La mia tendenza a un eccesso di proliferazione metaforica e “lirica” si è attenuato; e credo che ciò sia dipeso almeno in parte proprio dall’incipit che tu descrivi. Quell’attacco cronometrico ha scandito fin da subito il “passo” del libro, e trattandosi di un libro breve mantenere il passo costante non si è rivelato troppo difficile.
Considerando anche La dissoluzione familiare, questo è il quarto romanzo che ruota intorno ai temi dell’infanzia e dell’adolescenza. Perché reputi questi due periodi della vita così importanti?
Perché è lì che dimentichiamo chi siamo e diventiamo chi crediamo di essere. Occorre poi tutta la vita – se basta e se si lavora seriamente su di sé – per recuperare almeno in parte quella luce aurorale che attorno ai sedici, diciassette anni va persa.
Sei stato spesso paragonato, sia per i contenuti dei tuoi romanzi che per lo stile, a Stephen King, un’influenza da te stesso sempre rivendicata del resto. Cosa te lo fa amare così tanto?
Sarebbe troppo lungo rispondere approfonditamente. Premesso che lo considero, per influenza sulle strutture romanzesche e sull’immaginario, il più importante romanziere a livello mondiale degli ultimi decenni, posso dire in breve che di lui amo la facilità narrativa, l’amore per il mistero e la capacità pressoché unica di creare atmosfere. Mi spingo ad azzardare che, nonostante l’immensa mole dei suoi numerosissimi libri, lui scrive quasi solo di atmosfere.
Dopo anni vissuti a Salerno, dove ti eri trasferito per motivi familiari, sei tornato in Abruzzo, nella tua L’Aquila. Che rapporto hai con questa terra e in che misura l’essere uno scrittore di provincia influenza la tua scrittura?
Quest’ultimo romanzo è ambientato a Salerno – anche se per i luoghi ho usato nomi immaginari. L’Aquila è dentro di me come atmosfera, taglio della luce, cibo, mentalità, odori, clima, carattere… Ogni scrittore è figlio del luogo in cui nasce e cresce.
Hai due figli piccoli. Come pensi che usciranno fuori, i bambini, dalla pandemia e da questa situazione così particolare, che li sta privando di molte esperienze che alla loro età dovrebbero essere invece essenziali e irrinunciabili?
Il mio più grande timore è che questa situazione faccia crescere delle generazioni ancora più nevrotiche delle precedenti. Un clima di controllo costante e continuo, nonché di sospensione e incertezza, è infatti terreno assai fertile per i disturbi fobico-ossessivi e per la depressione. La pandemia ha del resto accelerato una tendenza già in atto: la progressiva digitalizzazione, la dispersione del contatto fisico, la virtualità che prende il posto del reale. Ma intravedo anche una linea evolutiva, che starà a noi decidere di imboccare: quella di un ritorno a un ritmo più sostenibile, per il pianeta e per chi lo abita, quella di un’attenuazione del cosiddetto “progresso” inteso come produzione e consumo ad ogni costo.
*Enrico Macioci è nato a L’Aquila nel maggio del 1975. È autore di Terremoto (Terre di Mezzo, 2010), La dissoluzione familiare (Indiana, 2011), Breve storia del talento (Mondadori, 2015), Lettera d’amore allo yeti (Mondadori, 2017) e della silloge poetica L’abete nel cerchio (Marco Saya, 2017). È inoltre stato co-curatore, insieme a Luca Cristiano, della raccolta di saggi su It di Stephen King dal titolo Dentro al nero (Effigie, 2017).