Lunedì, 19 Gennaio 2015 19:39

Il bambino che saremo stati. Su "Ero", l'ultimo spettacolo di Cesar Brie

di 

di Daniele Poccia - "Ero". Nell'ultimo spettacolo di Cesar Brie, tenutosi a San Demetrio né Vestini (L'Aquila) la scorsa domenica presso il Teatro Nobelperlapace, la nostalgia sembrerebbe farla da padrona. Come molti ricorderanno dalla lettura dell'Insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera, dove di questa parola è menzionata l'etimologia, "nostalgia" significa "dolore del ritorno". Ecco, Brie sembra servirsi di quel registro prettamente senile di chi ormai ha già vissuto più di quanto gli resta da vivere e al quale dunque la vita si mostra anzitutto nell'orizzonte del passato. E dunque del dolore, per quanto a volte dolce, del ritorno. Un ritorno, naturalmente, impossibile e per questo tanto più straziante. "Ero", appunto. Eppure, nell'ultima parte di questo straordinario "romanzo di formazione al rovescio" (dalla vecchiaia alla giovinezza; dalla maturità all'immaturità) si assiste a un singolare "effetto di straniamento". Più si va avanti, più si diventa quello che non si è mai potuti essere del tutto e che mai si potrà del tutto essere. Un'esilarante tirata comica contro i critici di teatro (schiera alla quale, fortunatamente, non apparteniamo) dà adito all'unico personaggio in scena di ridiventare ciò che non è mai stato: un bambino bisognoso di attenzioni, di affetto, di riconoscimento. In una parola, di amore. Non è forse questo quello che ognuno di noi ha da sempre voluto essere, senza poterlo mai essere davvero?

Un dubbio sorge tuttavia nello spettatore. E' Cesar Brie che sta parlando? E a chi sta parlando? A se stesso? A noi in quanto suoi uditori? O a nessuno in particolare, perché ad ognuno? È lui a dirci, nella brochure introduttiva, che non si tratta di una storia autobiografica ma di una vicenda che ambisce ad essere universale. Nondimeno, è ancora e sempre lui a parlare di sé attraverso il suo nome di attore e regista dalla lunga e importante carriera. Chi parla dunque? Siamo alle prese con quel genere recente che, con una brutta parola, si chiama autofiction e che mescola scientemente finzione e realtà nella narrazione di una vicenda in prima persona? Il problema non è forse questo. Non si tratta di capire quanto è vero e quanto è falso invece nel racconto. Se davvero la sua portata è universale, se concerne tutti noi, è perché la "verità" della storia alla quale si assiste letteralmente non esiste. Quando il manichino che rappresenta il bambino che ciascuno di noi si porta dentro e del quale non può, grazie a dio, mai disfarsi, viene finalmente tirato fuori dalla cassa in cui era stato rinchiuso, si capisce che la verità è qualcosa che va fatta esistere – come appunto i bambini sanno fare meglio di chiunque altro e come gli artisti sanno da tempo (ben prima dei filosofi). E quell'"Ero" che dà il titolo allo spettacolo diventa allora un'altra cosa. Non è più l'"Ero" di un passato ormai sancito una volta per tutte, cristallizzato nella sua esistenza non ulteriormente pregiudicabile. Non è l’“Ero” di un ricordo muto, privo di ogni potere sul passato. Diventa l’“Ero” degli errori che comunque non possiamo non fare e che pure vorremmo non ripetere. Diventa l'"Ero" di una vita che come l'Angelus novus di Paul Klee (scelto dal filosofo Walter Benjamin come effige della Storia) è sospinto in avanti da un vento irresistibile mentre è rivolto con lo sguardo all’indietro. Quell'"Ero" diventa insomma l’emblema della vita che si sta facendo, qui ed ora, e che è sempre inevitabilmente divisa tra il suo avanzare cieco verso il futuro e il suo guardarsi alle spalle. Diventa l’emblema di una verità che non conosce termini di paragone (è sia finzionale che reale) perché non cessa di accadere ogni volta di nuovo come se fosse la prima volta. Che è sempre allo stato nascente. Come negli occhi, appunto, di un bambino.

La schiera di personaggi "archetipici" di cui è intessuta la storia (il Padre, la Madre, la Nonna) sono allora solo dei segni di quello che si è stati e da cui, continuamente, si prende congedo. La morte verso cui il personaggio (e ciascuno di noi con esso) si avvia, si rivela perciò come già da sempre accaduta, in ogni momento della vita. Dunque – ed è forse questa la lezione più potente che emerge dallo spettacolo – è la vita stessa a rivelarsi come una vittoria incessante sulla morte. "Ero". L'uso del tempo imperfetto è quindi sintomatico: esso dà l'idea di una durata che ancora si prolunga nel presente, al contrario di quel passato remoto che invece si usa solo a cose fatte, quando qualcosa si è concluso. Ma può veramente la vita concludersi?

Tra le ultime parole di Brie, non a caso, c'è ancora l'amore come forza più forte della morte medesima. Solo amando la vita, in quanto morte continua – sequela ininterrotta di "ero" –, la vita stessa diventa sopportabile. Solo essendo sempre e comunque un bambino, quel bambino che tutti noi saremo stati, il "dolore del ritorno" cede il passo al desiderio del cambiamento. E l’amore, semplicemente, è la capacità di dare inizio a qualcosa di nuovo, di far esistere l’inedito. È fare, appunto, quella verità che ancora non esiste e che mai esisterà come tale – pur non potendo fare a meno di provare ad esistere. È dare l'esempio per qualcosa che non è ancora stato e che è destinato a restare tale. Non di nostalgia si tratta, allora, ma di voglia di continuare. Il teatro civile di Brie, in questa sua svolta apparentemente tutta intimista (ma forse è sempre stato così: la questione pubblica è sempre stata per lui anche una questione privata, sebbene non il contrario), è più che mai impegnato, sul fronte difficile dell’esperienza di tutti noi. E, di conseguenza, ci chiama all’impegno – con l’esempio che esso stesso fornisce. Sembra chiederci insomma: siete ancora capaci di “amare”, di far esistere una verità solo possibile?

Ultima modifica il Lunedì, 19 Gennaio 2015 20:00

Articoli correlati (da tag)

Chiudi