Mercoledì, 11 Febbraio 2015 09:13

Sanremo 2015: la prima serata, all'insegna della tradizione

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di Doriana Legge - Sanremo 2015, sessantacinquesima edizione all’insegna della tradizione, grida Carlo Conti. E io, prima di avventurarmi in qualsiasi discorso proto-letterario sulle diatribe e le assonanze tra il tradire il tradurre affiliate alla tradizione, freno ogni istinto e mi tuffo nel bagno di edulcorata italianità che mi aspetta. Si parte subito con la musica. Bene.

La prima è Chiara. Così senza cognome. È la tipa della pubblicità ossessiva della Tim, scopro ora che canta, e non lo fa neanche male. La canzone apre bene il festival, un piano ostinato e buone dinamiche, è un perfetto prodotto radiofonico, già canticchio il ritornello, commerciale al punto giusto, bella apertura.

Emma invece, che conoscevo come cantante, stavolta è la spalla di Conti. Nei tempi della mobilità forzata chiunque si reinventa, anche chi ha venduto milioni di dischi ma non sa parlare.

La gara continua con Gianluca Grignani. L’ultima volta ho sentito parlare di lui per una presunta rissa sul palco testimoniata dal video youtube “Grignani ubriaco cerca di rubare la scena a Omar Pedrini”. Ora è a Sanremo, frequenta sempre i migliori salotti. Della sua canzone “Sogni infranti” si ricordano le farciture di archi che in tutti i brani del festival provano a rendere ammiccante un pezzo rock anche alla signora in poltrona nella prima fila.

Alla faccia di Wanda Osiris scende – maldestra - la scalinata Arisa, rosso vestita, cantante, ah no presentatrice, anche per lei vale il messaggio anticrisi: la ripresa passa dal lancio della mobilità. Presenta balbettando il quarantenne Alex Britti, che mi vergogno a dirlo, mi fa tenerezza. Rivive in ogni sua canzone pop quel mancato sogno blues infranto in tenera età. Butta qui e là un virtuosismo chitarristico tra le sue canzonette pop con cui accompagna le nostre estati dal 1994. Alex, però mi piaci.

Poi mi distraggo, forse inciampo accidentalmente sul telecomando e capito su TV2000. Ah no, sempre RaiUno, anzi 501 in HD per vederla meglio questa famiglia più numerosa d’Italia, la famiglia Anania. Ebbene sì, lo spot cattolico non si nasconde più dietro velati doppisensi, messaggi in reverse che echeggiano tra le rubriche di Uno Mattina e gli spot del’ottopermille. A Sanremo tutto è smarmellato ('apri tutto Conti', cit. Boris). La povera signora Anania se lo merita il suo attimo di gloria con i suoi sedici figli al fianco, mentre suo marito continua a ripetere che tutto questo è opera di Dio e dello spirito santo (infaticabile l’Arcangelo Gabriele è accorso spesso alla porta della loro casa).

È Malika Ayane che spezza l’imbarazzo generale e ci rapisce nelle sue voluttuose gestualità, ma il pezzo non morde, sarà che il fonico dormiva, ma l’audio non aiuta il brano che manca di mordente e quel tanto di groove che l’avrebbe reso più accattivante. Peraltro è tutto un trionfo di archi, che anche stavolta portano a casa il risultato.

Il primo ospite fa gli onori di casa nostra (la casa buona): Tiziano Ferro, che un po’ fa il verso a Massimo Ranieri, ma che verso! Con il sempreverde medley è il momento più alto del festival, e manda in visibilio anche me che mi scopro a conoscerle tutte queste sue belle canzoni, le canticchio persino e penso a quanto è inutile farneticare sulla tradizione sanremese se poi da uno che a Sanremo non è mai stato esce fuori così tanta bellezza e mestiere.

Dear Jack, prodotto defilippesco dell’anno, rapaci garzoni abituati ai riflettori, gli sguardi gridano “io te lo buco questo schermo”. Intanto la Radiotelevisione italiana ringrazia, guadagnando la fetta di pubblico giovanile che aveva perso durante i 90 secondi di pubblicità. Secondi che peraltro non bastano a farci dimenticare il momento alto vissuto con il tizianone nazionale. Sono invece abbastanza per lo scatenarsi di urla delle retrovie, forse vola qualche peluche, di certo molta salivazione. Era poi così tanto tempo fa quando dalla piccionaia del teatro la Fenice volantini antiasburgici e coccarde tricolori sigillavano l’opera di Verdi cadendo sulle teste degli ufficiali austriaci presenti in platea? Sì, era tanto tempo fa.

Finito il volo picaresco della mia mente, mi accorgo che ho bisogno di un po’ di zapping. Su Rete4 danno l’Esorcista.

Ho terrore degli horror, ma torno subito su RaiUno. Lara Fabian, e qui mi da una mano la voce di wikipedia che cito testualmente nelle sue prime righe: “È una delle più note esponenti del panorama musicale francofono a livello internazionale; la sua voce è una delle più potenti e acute del panorama canoro mondiale”. Peccato che la lettura della sua biografia sia stata più interessante della sua voce - così “potente” - che la canzone è già finita non trovando spazio nelle mie orecchie, figuriamoci nel mio cuore. Lara Fabian ci rivediamo in finale.

Intanto tra porte che non si aprono la terza valletta (non cerco su google altrimenti perdo anche la prossima canzone) esibisce il suo spagnolo, che è poi la sua lingua madre.

Si percepisce nell’aria che sta arrivando il momento principe. Abbiamo aspettato ventiquattro anni per gustarci questo ritorno, nel frattempo sono passati sette Pippo Baudo, un paio di Fabio Fazio (forse più) – qualche torrenziale Bonolis, forse anche un Mike Bongiorno (controllerò nell’agenda per l’errata corrige di domani), una Raffaella Carrà… ma tocca a un tronfio Carlo Conti urlare il grande ritorno: Albano e Romina Power.

Una carrellata di brani. I ruggiti di Albano si sovrappongono a quelli più modesti di Romina di tanto in tanto soccorsa dalle sante coriste dell’orchestra. La matrona è però posseduta dal sacro spirito di Gabry Ponte e cerca di coinvolgere il pubblico in un batter di mano aritmico. I due non si guardano, anzi dietro il botulino di Romina percepisco anche una smorfia di certo disgusto quando Albano si esibisce in un paio di flessioni, evocazioni di un passato atletico. E poi Carlo Conti tenta il tutto per tutto invocando un casto “bacino” tra i due redivivi. Ma ahimé la De Filippi con il suo C’è posta per te, è lontana a sonnecchiare preparando il prossimo successo televisivo, per il resto qui a Sanremo è solo tanta imbarazzante felicità.

Mi taccio intanto sui cambi d’abito che hanno trasformato Arisa in una cosa strana, a metà tra la geisha e una matrioska, tutto solo per introdurre Nek con il suo “Fatti avanti amore”. Qui gli archi hanno un bel po’ da fare per sostenere i volumi di un reverbero esagerato sulle linee vocali, e un synt che esibisce un riff anni ’80, che fa da tappeto volante e mi riporta alle serate nella piana di Navelli a far la posta tra il discopascolo di Prata d’Ansidonia e la dancefloor più sofisticata della immancabile Sagra della Patata di Barisciano.

Grazia di Michele e Mauro Coruzzi. Guanti da sofisticata signora lei, farfallino sciolto lui. La classe si vede, si sente anche, vecchi animali da palcoscenico entrambi. Non c’è ombra di Platinette che altrimenti avrebbe certo imposto il suo grido quando Carlo Conti si trova a omaggiare la donna di Michele con un presente floreale.

Poi che dire: Nesli non l’ho visto, ero in bagno per inevitabili bisogni fisiologici che Sanremo scatena. Scopro poi che ho perso anche Annalisa. Domani ricerca famelica su youtube.

E intanto penso a questo Sanremo che vorrebbe essere la rara gemma sulla buona italianità, ma sembra piuttosto il gioco dell’albero della cuccagna, spogliato però dell’antica sacralità, e degradato a burlesque del dove colgo colgo, che a pescar bene si finisce con tanta m**** addosso.

di Doriana Legge

 

Ultima modifica il Mercoledì, 11 Febbraio 2015 11:18

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