I messia, si sa, arrivano solo al termine di lunghe attese. La loro venuta o il loro ritorno sono sempre bramati, anelati, sospirati. Michael Eugene D'Angelo Archer - il predicatore, il redentore, il profeta del nuovo soul- non ha fatto eccezione.
L'artista nato a Richmond, Virginia, nel 1974, ha impiegato 14 anni per dare un seguito a Voodoo, l'album che nel 2000 lo consacrò star mondiale issandolo nell'empireo della black music accanto a giganti come Marvin Gaye, Sly Stone, Smookey Robinson e Prince.
14 anni, poco meno di tre lustri - un'attesa inconcepibilmente lunga per un mondo, quello della musica, asservito, al pari di altri settori dell'industria culturale, alla velocità e all'ipertrofia del turbocapitalismo – al termine dei quali è arrivato, quando nessuno ormai ci credeva più, dopo mille annunci e altrettanti rinvii, Black Messiah, nuovo, acclamato capolavoro che lo ha proiettato di nuovo alla ribalta.
Un album che non è esagerato definire epocale, con il quale tutta la musica nera – ma non solo quella – dovrà fare i conti negli anni a venire; un nuovo spartiacque che molti, a ragione, hanno paragonato a What's going on di Marvin Gaye e, soprattutto, a There's a riot goin on' di Sly Stone. Non tanto – o non solo - per i suoni, quanto, soprattutto, per le tematiche affrontate (da quelle più intimiste a quelle più politiche) nonché per la sua capacità di immaginare nuovi scenari e indicare nuovi orizzonti senza dimenticare le lezioni del passato, il retaggio dei classici. Avant-soul lo ha definito, non a caso, la rivista Rolling Stone, quasi a volerne sottolineare la diversa cifra posseduta rispetto alla maggior parte delle produzioni black contemporanee, tutte rispettabilissime, in molti casi anche ottime, ma tutte, invariabilmente, affette da quella retromania di cui ha mirabilmente scritto Simon Reynolds.
Da qualche mese, Black Messiah è diventato anche un tour – intitolato Secondo coming, la seconda venuta, tanto per restare in tema di messianismo – che, questa settimana, ha fatto tappa anche in Italia, a Roma e Milano.
Il concerto nella Capitale, inserito nel cartellone del festival Luglio suona bene, in programma alla Cavea dell'Auditorium di Renzo Piano, è stato uno spettacolo sensazionale per intensità, fisicità, capacità di coinvolgimento del pubblico.
Lo show è stato un bignami live della migliore musica afroamericana degli ultimi 50 anni.
Il falsetto e la corposità della voce di D'Angelo, di chiara matrice gospel (il ragazzo, del resto, viene da una famiglia di predicatori), fanno pensare alla vocalità di artisti quali Marvin Gaye, Sam Cooke e Smookey Robinson; la sua maestria da bandleader che sa come far girare a mille i musicisti derivano direttamente da James Brown (di cui riprende anche trucchetti e pantomime di scena); gli sconfinamenti nel rock e nella psichedelia sono quelli dei Funkadelic; l'abilità nel creare un caleidoscopio di stili diversi, nel mescolare in un unico calderone generi apparentemente distanti, è la stessa di Prince (il riferimento più cercato e influente).
Ma D'Angelo, come detto, non è un nostalgico, bensì un artista calato pienamente nel presente. Un presente che, per la musica black, vuol dire soprattutto rap e hip hop, due generi che D'Angelo ha assimilato alla perfezione ma ai quali non sacrifica la freschezza e l'autenticità che solo una musica suonata con strumenti veri sa dare. Non è un caso che nel booklet di Black Messiah si trovi scritto: “Per la registrazione non sono stati utilizzati plug-in digitali.Tutta l’elaborazione, gli effetti, il missaggio e la registrazione sono stati effettuati in analogico, su nastro, prevalentemente con strumentazione vintage”.
Il concerto di lunedì 6 luglio all'Auditorium si è aperto con Ain't that easy, prima traccia del nuovo album, brano scandito da un riff pesante che cita i Funkadelic più cupi e distopici ma che non perde mai il groove, prima di sfociare in un ritornello princiano quant'altri mai.
Pochi secondi e il pubblico della cavea è già tutto in piedi: giù nel parterre gli spettatori lasciano i propri posti e si riversano a ridosso del palco (da dove, naturalmente, non si allontaneranno più fino alla fine del concerto). Nell'afosa notte romana, D'Angelo indossa un lungo impermeabile lacerato e imbraccia una chitarra diamantata che fa pendant con quella dell'altro chitarrista, Jesse Johnson (già a fianco di Prince, sempre lui). Il resto della band, i Vanguard, è formato da Chris “Daddy” Dave alla batteria, Isaiah Sharkey alla seconda chitarra, Cleo “Pookie” Sample alle tasiere, la new entry Joi Elaine Gilliam ai cori (insieme a Charlie “Red” Middleton e Jermaine Holmes) in sostituzione di Kendra Foster; Kenneth Whalum e Keyon Harrold ai fiati e il fedele scudiero Pino Palladino al basso.
Subito dopo Ain't that easy sono sfilate Spanish joint (da Voodoo), pezzo molto à la Gil Scott Heron, e la jazzata Betray my heart, sempre da Black Messiah. Il momento emotivamente più coinvolgente dello show è arrivato con l'accoppiata Really love - una ballata di grande eleganza e sensualità, aperta da un intro di chitarra flamencata - The Charade, il cui testo è stato scritto da D'Angelo sull'onda dello sdegno montato in tutti gli Stati Uniti dopo le morti di alcuni uomini afro-americani inermi avvenute per mano della polizia. L'esecuzione, infatti, è preceduta da una dedica “a tutte le vittime delle ingiustizie sparse in giro per il mondo” ed è cantato con tanto di pugno chiuso alzato verso il cielo. Il gesto, e la mano guantata di D'Angelo, ricordano la famosa foto di Tommie Smith e John Carlos a Città del Messico nel 1968. Mai D'Angelo era stato così esplicitamente politico. E' un altro dei cambiamenti avvenuti in questi 14 anni: il brotha con i pettorali, i bicipiti e gli addominali scolpiti che figurava con posa ribalda e un po' spaccona e un'espressione ammiccante, da sex symbol, sulla copertina di Voodoo è stato sostituito da un artista fisicamente meno in tiro ma sicuramente più maturo e consapevole.
Un altro momento topico dello show è arrivato con Brown sugar, parzialmente stravolta e riletta in una versione funkissima zeppa di citazioni, rimandi e hook, da Four Play di Fred Wesley/JB's a Sir Nose D VoidofFunk dei Parliament fino a Hollywood Squares di Bootsy Collins.
L'apoteosi funk è continuata con Sugah Daddy (altro brano dove si sente forte l'ascendenza di Prince), prima di lasciare il passo a 'Till it's done e alla conclusiva Untitled (How does it feel), che è sfumata in una lunga coda nella quale i membri dei Vanguard si sono congedati uno alla volta fino a lasciare sul palco il solo leader al pianoforte. Le ultime note suonate accarezzando la tastiera, prima di porre il saluto a un pubblico che lo ha accolto con trasporto e calore: “Grazie Roma, siete stati fantastici, spero di rivedervi presto, peace and love”.
D'Angelo è tornato. E, ne siamo certi, questa volta è qui per restare.