Il volto del lavoro, in Italia, è quello dei ventimila che hanno invaso il parco archeologico di Solito-Corvisea, a Taranto. "E' un giorno di festa, ma si parla di lavoro, di diritti, di ricatti. E lo facciamo qui, in uno dei pochi spazi verdi della città”, ha raccontato l’attore Michele Riondino, ideatore del “controconcertone” pugliese.
“Questa era una discarica a cielo aperto: in sei giorni abbiamo aperto il parco ai cittadini. E in questi giorni, mentre lavoravamo per montare il palco, qui i bambini hanno ricominciato a giocare. Il nostro – ha sottolineato - è un segnale forte, un segnale forte per chi organizza concerti e non sfrutta più l'occasione per parlare delle tematiche che riguardano i lavoratori. Gli artisti che sono qui, oggi, lo hanno voluto: Mannoia, Raf, Baccini, sono stati loro a chiederci di partecipare. E abbiamo dovuto dire di no a tanti altri, anche a nomi illustri, che ora suonano a Roma”.
E’ stato un grande successo. La giornata, nata dalle battaglie contro i veleni dell’Ilva del comitato “Cittadini e lavoratori liberi e pensanti”, ha visto alternarsi al microfono, insieme agli artisti, rappresentanti di associazioni cittadine e ambientaliste oltre ad alcuni lavoratori della fabbrica che sta uccidendo una città sotto il ricatto del lavoro. Ha parlato Maria Teresa, una donna di 48 anni che vive con la sua famiglia nel quartiere Paolo VI, vicino alle fabbriche, e che sta lottando contro una grave malattia. Sul palco è scoppiata in lacrime. Commosso anche uno degli allevatori che ha visto abbattere tutti suoi capi di bestiame perché contaminati dalla diossina.
Una festa triste, nonostante i balli, di chi non molla. "Taranto libera", il grido della folla scandito a più riprese. Le rivendicazioni per il diritto alla salute, l'angoscia per il futuro, il dramma del lavoro che non c'è: quel 40% di disoccupazione che torna in questo Primo maggio di crisi. Un grido di rabbia che ha unito, idealmente, Taranto con Milano, Torino, Bologna e Napoli dove si sono registrati degli scontri, a Città della scienza, tra Cobas e sindacati. Le forze di polizia sono intervenute duramente. Il tutto non è durato più d'un quarto d'ora, tra le 19.30 e le 19.45. Dopo un tentativo di mediazione tra i dimostranti, fallito, Cgil-Cisl e Uil hanno deciso di sospendere definitivamente la manifestazione. "Se questo è il palco dei lavoratori perché non ci fanno parlare?”, hanno urlato Mimmo Mignano, Marco Cusano e Antonio Montella. “Viviamo con neanche 500 euro al mese e abbiamo delle famiglie. Vogliamo delle risposte dai sindacati e chiediamo che venga rivisto l'accordo sottoscritto in Regione Campania, un accordo che ha escluso i tremila cassaintegrati, tra cui 316 deportati a Nola e gli ex Ergom rimasti in mezzo ad una strada".
Storie di lavoro che non c’è. Storie simili a quelle raccontate da altre piazze in giro per il mondo. "Più democrazia, meno austerità " era scritto sugli striscioni di Madrid, una delle 82 città spagnole invase dai cortei. Nella Grecia bloccata dall’ennesimo sciopero generale, Atene e Salonicco hanno visto le strade riempirsi di oltre 13.000 manifestanti. Violenti scontri a Istanbul, con un bilancio di 30 feriti e 72 persone arrestate. Tra le 120.000 e le 150.000 persone hanno manifestato tra le strade di Parigi, Marsiglia a Bordeaux.
Altri cortei e proteste, tutti incentrati sull'eccesso di austerità, si sono svolti in Ucraina, Croazia, Polonia e Portogallo. A Hong Kong i lavoratori del porto in sciopero hanno manifestato per ottenere migliori condizioni, e molti sostenitori li hanno accompagnati, nonostante la pioggia. A Jakarta circa 55.000 persone hanno manifestato contro la delocalizzazione del lavoro e per avere stipendi migliori. A Taiwan pioveva molto, ma si è manifestato contro la riforma delle pensioni.
Le dimostrazioni più veementi e toccanti in Bangladesh, dove decine di migliaia di persone hanno gridato la loro rabbia contro la globalizzazione dei mercati che costringe a lavori massacranti per pochi dollari al mese: con il pensiero alle quasi 400 vittime del crollo del "palazzo del tessile" a Dacca, meno di una settimana fa. Associazioni sindacali, partiti politici e diverse organizzazioni governative hanno tenuto cortei, comizi e attività culturali nella capitale e nel resto del Paese asiatico, uno dei più poveri al mondo, che di recente ha visto un boom dell'industria tessile grazie alla manodopera a basso costo e a incentivi all'esportazione in Europa e negli Usa. Circa 3,5 milioni di persone sono impiegate nelle fabbriche che confezionano capi di abbigliamento per le grandi firme della moda mondiale. Tra le altre, la Benetton. Dalle macerie del Rana Plaza, infatti, iniziano ad emergere le prime verità. E si scopre che i lavoratori morti nel crollo producevano capi anche per l’azienda veneta che ha inteso chiarire che "nessuna delle società coinvolte è fornitrice di Benetton Group o uno qualsiasi dei suoi marchi. Oltre a ciò, un ordine è stato completato e spedito da uno dei produttori coinvolti diverse settimane prima dell’incidente. Da allora, questo subappaltatore è stato rimosso dalla nostra lista dei fornitori".