Se Roland Barthes fosse ancora vivo e venisse chiamato ad aggiornare il catalogo delle sue Mythologies è probabile che deciderebbe di scrivere un capitolo su uno dei tanti programmi televisivi dedicati alla gastronomia o sul fiorente mondo delle celebrità culinarie (anche se già nell'edizione originaria, quella del 1957, il semiologo francese parlava di Cucina ornamentale, "una cucina del rivestimento che si sforza di attenuare o travestire la natura primaria degli alimenti, la brutalità delle carni e l'asprezza dei crostacei").
Complice un'ossessiva promozione sociale, culturale e mediatica della cucina e di ciò che le gravita intorno, abbiamo perso il senso della realtà: gli chef sono diventati i nuovi divi - personaggi celebri e celebrati - e il mondo variegato e complesso della ristorazione è stato inscatolato e banalizzato dentro format televisivi che rispondono a regole che nulla hanno a che vedere con la vita vera.
Nella stragrande maggioranza dei casi, quello del cuoco è un mestiere tutt'altro che eroico e le cucine non sono i nuovi atelier dove gli chef-artisti possono dare libero sfogo alla propria creatività ma succursali dell'inferno popolate da ciurme di pirati, masnadieri e disperati, dove alcol, droghe e sostanze illegali di ogni tipo scorrono a fiumi e l'obiettivo minimo è quello di tagliare una buona julienne, servire un piatto cucinato al giusto livello di cottura e croccantezza e sfamare 100 persone quando il fornitore ha bucato una consegna, il congelatore è rotto e il lavapiatti ha improvvisamente deciso di andarsene sbattendo la porta.
Di tutto questo parla Carne trita, l'educazione di un cuoco, fulminante esordio dello chef e scrittore Leonardo Lucarelli appena pubblicato dalla Garzanti. Un libro che è già diventato un caso editoriale, con una seconda ristampa già annunciata, elogi della critica (Antonio D'Orrico lo ha definito sul Corriere della sera "il miglior romanzo italiano dell'anno") e paragoni con un libro cult come Kitchen confidential di Anthony Bourdain.
Carne trita è il racconto di ciò che accade dietro le quinte del mondo della ristorazione oltre le spettacolarizzazioni televisive, un romanzo intelligente, sincero e divertente (oltre che ben scritto) in cui il protagonista, che altri non è che l'autore, ripercorre le varie tappe che lo hanno portato a diventare un cuoco: dall'infanzia con i genitori hippies rientrati in Italia dopo anni trascosi in India alle prime esperienze da cuoco fatte invitando a casa gli amici e cucinando i prodotti rubati al supermercato, fino alle cucine vere con tutto il loro corredo di "artisti, pazzi e criminali".
Non un pamphlet né un libro denuncia ma una sorta di diario di un'educazione umana, professionale e sentimentale.
Da circa un anno Leonardo Lucarelli vive a L'Aquila.
NewsTown lo ha incontrato per questa intervista.
Come definiresti questo libro? Un romanzo, un'autobiografia?
La forma è sicuramente quella del romanzo ma di fatto è anche un'autobiografia. Il progetto iniziale era quello di scrivere un saggio, poi è diventato un romanzo strada facendo. Il libro è cresciuto da solo, ha preso forma mentre lo scrivevo.
Perché hai sentito l'esigenza di raccontare la tua storia?
La verità è che non avevo mai pensato di scrivere un libro. Tutto è iniziato da un articolo che ho scritto nel 2013 per la rivista Il Reportage rimbalzato su vari siti, tra cui Le parole e le cose, un sito che si occupa prevalentemente di letteratura. Il caso ha voluto che quell'articolo sia stato letto da quello che poi è diventato il mio editor proprio nel momento in cui la casa editrice stava pensando di pubblicare un libro che proponesse una visione della cucina meno eroica rispetto a quella che viene presentata nei vari format televisivi. Il progetto del libro è partito dunque da una proposta della casa editrice, poi scriverlo è stato un percorso introspettivo molto arricchente. Scrivendo abbiamo la possibilità di darci delle risposte che vivendo le cose non siamo mai dati.
Nell'introduzione fai un lungo elenco di motivi per cui si diventa cuochi. Tu come lo sei diventato?
Sono diventato cuoco per distrazione. Questo mondo è davvero un tritacarne che ti risucchia, per vari motivi: perché quando sei giovane ti dà un'identità che diventa preziosissima; perché in cucina si guadagna bene e i soldi servono; perché le persone che ho conosciuto in cucina da subito hanno esercitato su di me un potere e una fascinazione importanti. Quello che mi è subito piaciuto di questo ambiente è che la cucina è un nucleo chiuso in cui c'erano delle regole ferree da rispettare per far funzionare le cose ma di fatto chi tu fossi e cosa facessi fuori da lì, come gestissi la tua vita, non importava a nessuno. E' il paradosso di sentirti libero ed essere chi sei in 30 metri quadri. Nessuno ti chiede di fingere, ti chiedono solo di finire la julienne in tempo e di far uscire il piatto insieme agli altri con la giusta temperatura e la giusta croccantezza. Tutto questo a vent'anni è un valore. A un certo punto mi sono ritrovato che di anni ne avevo 26, gestivo un ristorante e guadagnavo bene. Insomma, di fatto mi sono ritrovato che ero un cuoco e reinventarsi in un'altra maniera era difficile.
Il fatto che questo libro stia avendo molto successo vuol dire anche che i lettori sentivano il bisogno di qualcuno che raccontasse finalmente il lato oscuro della gastronomia e della ristorazione?
In realtà anche i format televisivi giocano a raccontare il dark side: in programmi come Cucine da incubo o Masterchef alla gente piace vedere lo chef che maltratta il malcapitato di turno. Ma pur mostrando quest'aspetto sono format che seguono regole televisive e queste non sono quelle che vigono sul lavoro. Nel momento in cui c'è questa sovraesposizione mediatica e questa trasformazione di una cosa così comune come il cibo, secondo me un po' di curiosità su che cosa c'è dietro tuto questo mondo viene fuori. Prima di me questa operazione l'aveva fatta Anthony Bourdain. Quando ho scritto l'articolo che ha costituito il primo nucleo del libro mi sono stupito anche io nell'apprendere come in Italia nessuno avesse mai fatto la stessa cosa. Il libro, però, non ha uno spirito voyeristico, non vuole suscitare isttnti pruriginosi. Io racconto come vive un cuoco, quanto poca epica sia la vita del cuoco, quanto fare il cuoco non voglia dire inventarsi ricette fenomenali ma organizzare una cena per 200 persone quando il fornitore non è arrivato, la cella frigorifera si è rotta e il lavapiatti se n'è andato sbattendo la porta. Fare il cuoco è soprattutto organizzare il lavoro degli altri e far funzionare un'azienda.
Il tuo percorso per diventare chef non è stato "esemplare": non hai frequentato l'alberghiero né fatto uno di quei costosissimi corsi professionalizzanti oggi molto in voga. Oggi in Italia il numero di studenti iscritti agli istituti albeghieri ha superato quello degli iscritti al liceo classico: un segno dei tempi. Ma basta andare in una di queste scuole per pensare di diventare chef?
Ho amici che mi dicono "Mio figlio ha 12 anni e vuole fare il cuoco", quest'anno ho visto maschere di carnevale da cuoco. Mi fa ridere questa cosa, fino a qualche anno fa era inimmaginabile. Che dire? C'è tanta moda, quando c'erano i programi di ballo tutti i ragazzini volevano fare i ballerini perché pensavano che quella fosse la vita più figa del mondo. Adesso invece pensano che la vita più figa sia quella dello chef. Le scuole servono sicuramente a dare gli strumenti giusti per fare la professione, su questo non discuto. Ma il cuoco non è solo il masterchef, ci sono i cuochi che lavorano nelle mense, quelli che lavorano nelle barche, negli ospedali, nelle crociere. Il mondo della ristorazione è fatto di persone che lavorano un sacco di ore in posti brutti non facendo nulla di creativo e guadagnando 1200 euro al mese.
Il libro ha anche dei risvolti politici e sociali, racconti anche di come gran parte del mondo della ristorazione si regga sul lavoro nero.
Sicuramente questo argomento c'è ma non lo definirei centrale: è sempre messo tra le righe. Ed è messo tra le righe volutamente, perché tra i cuochi non se ne parla. E' una realtà accettata da tutti.
Da circa un anno vivi a L'Aquila. Da tempo si parla della gastronomia come di un "asset strategico", per usare un'espressione un po' tronfia tanto cara ai politici, sul quale l'Abruzzo deve puntare nel futuro. Che idea ti sei fatto della realtà abruzzese?
Oltre al cuoco, che è la mia attività principale, da tanti anni collaboro con una rivista di moto. Per loro mi occupo di turismo. E' poco più di un hobby ma ormai lo faccio da molti anni ed è un settore che conosco bene. L'anno scorso alla Bit, la Borsa del turismo italiano, l'Aabruzzo non era nemmeno presente. Quando vuoi organizzare qualcosa di turistico è una regione inesistente. Altre regioni invece hanno dei referenti attivi. Questa è la dannazione di questa regione, che non riesce a sfruttare tutto il suo potenziale. Ma è anche la sua forza. L'Abruzzo è l'unica regione in Italia in cui riesci a farti in moto 150 km di montagna senza incontrare nessuno. Facendo un paragone, ad esempio, con le Dolomiti, dove se ti fermi a prendere un caffè lo paghi due euro e cinquanta o se vai in un hotel ti svenano, in Abruzzo c'è un rapporto con il territorio che non è basato per vendere quest'ultimo al turista. Un turista un po' più attento questa genuinità l'apprezza tantissimo. Un turista qui non si sente una macchina da soldi. Mi rendo conto che questo è drammatico per gli operatori del turismo, perché il giro economico potrebbe essere molto più ampio ma a me l'Abruzzo piace proprio per questo. Prossimamente dovrò decidere se trasferirmi di nuovo e una delle cose che mi blocca è proprio questa. L'anno scorso a Ferragosto sono stato sul litorale abruzzese: mare bello, poche persone, ho pranzato in un ristorante di pesce spendendo 20 euro. Dove lo trovi un altro posto così?