Il legame con la sua terra è marchiato già nel suo nome d’arte, Setak. Non un nickname ammiccante ma un rimando preciso alle sue origini: “Deriva dal soprannome di famiglia “Setacciaro”, anzi, come dicono dalle mie parti, "lu setacciar”, perché i miei antenati costruivano setacci, gli strumenti utilizzati per filtrare la farina. Da noi le famiglie vengono identificate con i loro soprannomi storici, talvolta anche molto antichi: dunque potrei diventare anche il presidente della Repubblica, ma per la gente del mio paese sarò per sempre “lu fij dilu setacciar”.
Nicola “Setak” Pomponi, da Penne, ha imparato prima a suonare e a cantare che a leggere e a scrivere (“Ho fatto il mio primo concerto a sei anni”). Musicista eclettico, Nicola è cresciuto ascoltando i classici del pop-rock, del blues e del soul anglo-americani ma per incidere il suo primo album da solista, che uscirà tra un paio di mesi e che viene anticipato, in questi giorni, dal bellissimo singolo Marije, non ha scelto l’inglese, e nemmeno l’italiano, ma la lingua della sua infanzia ovvero il dialetto dell’entroterra pescarese.
Dopo essersi portato addosso, per anni, lo stigma di varietà linguistica volgare e macchiettistica, il dialetto, anzi, i dialetti, stanno conoscendo un periodo di riscatto e riscoperta, in virtù della loro potenza espressiva, in grado di veicolare una gamma di emozioni sconosciuta al cosiddetto italiano standard e neostandard. Sempre di più, il dialetto viene visto come lingua viva, la lingua del cuore, degli affetti, della quotidianità personale e privata.
“Noi abruzzesi, e il discorso vale soprattutto per i giovani” dice a NewsTown Nicola, che da anni vive a Roma ma che non ha mai reciso il legame con la sua terra “siamo abituati a percepire il dialetto in modo ironico o volgare, nel senso dispregiativo del termine. Nel mio disco invece dico finalmente cose “normali”.
Un album tutto in dialetto che, sulla tua pagina Facebook, hai presentato così: “E' un disco che parla di me e della mia terra, dei miei primi anni di vita”. Perché hai sentito il bisogno di compiere questo viaggio a ritroso nella tua infanzia/adolescenza?
Questo viaggio è cominciato grazie al mio produttore, Fabrizio Cesare. Mentre gli facevo ascoltare dei provini in inglese, si è fermato all’improvviso e mi ha detto: "Prova a cantare questa cosa con il tuo dialetto, ma senza pensarci troppo su". In quel momento ho pensato di tutto, ero totalmente imbarazzato, ma dopo qualche istante si è aperto un mondo nuovo nella mia testa: è come se avessi visto in maniera chiara tutto quello che avremmo fatto successivamente. Le emozioni che ho provato durante la mia infanzia sono state le più potenti, le più importanti e il modo più naturale e sincero di comunicarle era proprio attraverso l’utilizzo del mio dialetto d’origine. Dopo il “violento” impatto iniziale, tutto è avvenuto in modo molto spontaneo.
Marije è un pezzo molto delicato, dove riesci a fondere il folk di matrice anglo-americana con il dialetto pennese, che qui scopriamo essere, peraltro, una lingua molto musicale.
In tutte le forme d’arte, la cosa che più mi colpisce è proprio l’intreccio di influenze diverse: è questo l’aspetto che, secondo me, crea l’identità di un artista. E’ stato fantastico per me riuscire a fondere ciò che sono io con la musica e i suoni che amo. Il risultato è sicuramente particolare, dal momento che, oltre alle migliaia di chilometri, a separarmi da quella musica c’è una differenza culturale non indifferente. Per quanto riguarda il dialetto, sono molto contento dell’utilizzo che ne faccio, perché noi abruzzesi (il discorso vale soprattutto per i giovani) siamo abituati a percepire il dialetto in modo ironico o volgare, nel senso dispregiativo del termine. Qui invece dico finalmente cose “normali”.
Marije, hai scritto, è una canzone “ispirata alle figure dei miei nonni. È stato, per me, un modo di interpretare i loro silenzi, i loro sguardi, i loro atteggiamenti. Le parole che mio nonno avrebbe voluto dire”. Ti riferisci al fatto che quella generazione non era molto incline a manifestare ed esprimere a parole i propri sentimenti e le proprie emozioni? Che c’era sempre una certa ritrosia nel rivelarle?
Hai totalmente centrato il punto. Mio nonno, come la maggior parte dei nonni di una volta, aveva il suo ruolo: quel ruolo imponeva un atteggiamento che gli impediva di manifestare i propri sentimenti in un certo modo. Con Marije, lui dice a mia nonna cose mai dette prima.
Parlaci anche del video. Dove lo avete girato?
Devo premettere che sono sempre stato titubante riguardo ai videoclip in genere: preferisco, infatti, che le persone abbiano una loro visione delle canzoni. Per diversi motivi, potrei parlare del nostro video per ore. Il video è stato girato a casa di mia nonna, luogo cardine della mia adolescenza. E’ stato diretto da Ivan D’Antonio con il quale è nata un’ intesa straordinaria da subito. Ho sempre apprezzato i suoi lavori, e credo davvero che lui, oltre ad essere una persona speciale, sia un grandissimo artista: amo in particolare la sua fotografia. Gli ho accennato il progetto e si è mostrato subito entusiasta. Ivan è stato molto coraggioso, perché la tecnica che ha utilizzato per girare il video è stata quella del piano sequenza e perché gli attori erano tutti miei amici o famigliari, dunque non professionisti. Vedere la mia canzone dal suo punto di vista è stato molto bello, e lo ringrazierò per sempre per averci fatto vivere un’esperienza incredibile con le persone a me più care, in primis mia nonna, che è l’attrice principale: l’unica cosa che ho preteso è stata, infatti, quella di avere mia nonna nel video.
Tu vivi da molti anni a Roma ma hai conservato un attaccamento molto forte con l’Abruzzo. Non solo con la tua città, Penne, ma anche con L’Aquila. Parlaci di questo legame.
Sì, ho un legame indelebile con l’Abruzzo e con il mio paese in particolare. Solo a pensarci provo un’ emozione forte nel petto. Come dico spesso: posso andare ovunque, fare e diventare qualsiasi cosa ma “sempr di Ponn’ sò”. Ragiono in abruzzese da sempre, e questa cosa difficilmente potrà cambiare. Con l’Aquila ho un rapporto magico da sempre: ho tantissimi amici lì e, quando ero più piccolo, era la città di uno dei miei più grandi amori. Avendo un passato da tennista, L’Aquila è stata luogo di interminabili battaglie (ho giocato per il Match Ball L’ Aquila per diversi anni e sono tuttora tesserato per il circolo di contrada Cavalli). Ci sono poi tornato un sacco di volte a suonare con le mie varie band in passato e ci torno sempre con gran piacere.
Raccontaci come ti sei avvicinato alla musica.
Mi sono avvicinato alla musica grazie a mio padre, grande appassionato e ottimo tastierista: sia a me che a mio fratello, elemento fondamentale della mia band, ha trasmesso la passione della musica sin da piccoli. Ascoltavo tutto il giorno i suoi dischi che erano pochi ma buoni. Siamo stati poi seguiti da una persona a me molto cara, il maestro Vincenzo Tartaglia. Ricordo ancora il nostro primo concerto: era il 1991, avevo 6 anni.
Quali artisti ti hanno accompagnato nella tua formazione musicale? Quali sono quelli a cui sei più legato?
L'argomento è talmente vasto che potrei parlarne per giorni interi. Per farti capire, devo ammettere che esistono anche canzoni che hanno inciso profondamente nella mia formazione, senza che questo implichi necessariamente una particolare affinità con gli artisti/band che le hanno create.Per cominciare, però, ti dico che un giorno, da piccolo, rimasi folgorato da una musica strana che in seguito scoprii chiamarsi blues. Per farla breve, sono cresciuto da un lato con i grandi esponenti del blues e del soul tradizionale, come Robert Johnson, B.B. King, Albert king, Steve Cropper, Ry Cooder, Sam and Dave, Otis redding, Eric Clapton, dall'altro con il rock e folk angloamericano anni 60/70 (Beatles, CCR, Stones, Cream, Bob Dylan, Hendrix). Essendo una persona molto curiosa, con il passare del tempo, ho cercato di ascoltare più musica possibile; mi sono appassionato alla musica sudamericana, al folk americano, e al pop inglese. Direi che vado a periodi: in questo, sono totalmente innamorato dei Wilco e sto ascoltando tanto il progressive anni 70. Se dovessi farti dei nomi di artisti che mi hanno maggiormente influenzato, direi che mi sento molto legato, non solo musicalmente, a Bob Dylan, Eric Clapton, Ry Cooder, Steve Cropper, Paul Mcartney.
Come nascono le tue canzoni?
Mah, non saprei spiegarlo molto bene a parole, perché si tratta di una strana alchimia che si scatena quando meno te lo aspetti. Ognuno ha il suo modo: io sono una persona molto disordinata e le mie canzoni nascono appunto in modo disordinato e nei momenti più strani. Certe volte possono passare interi giorni senza la minima ispirazione; altre volte, invece, può capitare che nel bel mezzo della notte, mentre sto per addormentarmi, sono costretto a scappare in bagno per registrare con il telefono delle idee che successivamente trasformo in canzoni.