Quasi trent’anni fa - era il 1989 - veniva dato alle stampe Se questa è una città di Vezio De Lucia, uno dei libri più importanti della letteratura territorialista italiana.
De Lucia, architetto e urbanista, ha lavorato per un quarto di secolo nella pubblica amministrazione. E’ stato direttore generale dell’urbanistica del ministero dei Lavori pubblici e ha diretto l’ufficio tecnico del commissariato per la ricostruzione di Napoli dopo il terremoto del 1980. Ha progettato i piani territoriali delle province di Pisa, Lucca e di altri comuni. Ha avuto anche, negli anni Novanta, incarichi politici: consigliere della Regione Lazio e assessore all’urbanistica del Comune di Napoli ai tempi del primo mandato di Bassolino sindaco.
De Lucia è stato ieri all’Aquila per il nono anniversario del terremoto per partecipare al seminario “La pianificazione, questa sconosciuta”, organizzato dall’associazione Comitatus Aquilanus. Insieme a lui, tra i relatori, c’era anche Paolo Berdini, ex assessore all’Urbanistica della giunta di Virginia Raggi.
Prendendo spunto proprio dal titolo del suo libro più famoso, gli abbiamo rivolto alcune domande.
De Lucia, L’Aquila è ancora una città?
Rischia di non esserlo più. Il terremoto poteva e doveva essere un’occasione per rimettere mano, migliorandolo, all’assetto urbanistico invece si è finito per peggiorare tutti i difetti tradizionali e storici che L’Aquila aveva, a cominciare dalle dimensioni del territorio comunale, enormi. A causa delle famigerate new town di Berlusconi e Bertolaso e di altri provvedimenti, come quello che autorizzò chiunque avesse un pezzo di terreno a costruirci sopra una casetta di legno, ora si contano un centinaio di insediamenti sparsi sul territorio. Una città come questa è di difficilissima gestione. Si pensi solo a cosa significa garantire il trasporto pubblico e tutti gli altri servizi, non solo quelli pubblici come le scuole, la sanità e la raccolta dell’immondizia, ma anche quelli privati come le attività commerciali, a una popolazione sparpagliata su un territorio così vasto. Questa dispersione genera movimento di mezzi, quindi la necessità di adeguare il sistema stradale, quindi altri costi aggiuntivi.
Cosa si poteva fare per evitare tutto questo?
Non si è avuto il coraggio di mettere in discussione il sistema dell’eccesso di frazioni. Forse bisognava abbandonare alcuni nuclei e portare più abitanti nel centro della città. Invece s’è fatto il contrario. Il centro storico doveva essere il punto d’attacco della ricostruzione, perché era da sempre il gioiello, l’anima, il cuore dell’Aquila, invece è molto indietro. Molti servizi e molti edifici sedi delle rappresentanze amministrative e dello Stato, a cominciare dalla prefettura, avrebbero dovuto essere riattivate subito. La cosa peggiore è che il terremoto non è stato nemmeno un fattore di sviluppo economico, tant’è vero che L’Aquila sta perdendo abitanti. Quando la ricostruzione sarà terminata e verranno meno sia i soldi dello Stato sia quelli spesi sul territorio dalle migliaia di operai che ora lavorano qui, ci sarà una crisi economico-finanziaria gravissima. Probabilmente il peggio, per L’Aquila, non è ancora venuto. Ci vorrebbe molto coraggio per correggere questo stato di cose. Non sono molto ottimista.
Di chi sono, secondo lei, le responsabilità? Del governo di allora, che impose una soluzione, quella delle new town, non concertata con il territorio e la popolazione? O dell’amministrazione comunale, che non fece abbastanza per opporsi a quel modello e trovare soluzioni alternative?
L’adesione al modello delle new town fu totale, anche grazie alla capacità di persuasione del presidente del Consiglio di allora. Non voglio assolvere il comune ma non sarebbe stato semplice dire no. Sarebbero state necessarie una grande consapevolezza e una grande chiarezza di idee. Detto questo, erano d’accordo tutti. Quel modello venne messo in discussione solo dopo lo scandalo della cricca. Tanti errori, come la delibera che autorizzava chiunque a costruirsi una casa su un pezzo di terra, sono da imputare, però al comune. Bisogna pensare che ogni casa che si costruisce è un onere per la pubblica amministrazione perché poi bisogna dotarla di servizi. Tutto questo è stato fatto senza un quadro urbanistico, il piano regolatore è degli anni Settanta e già da prima del terremoto avrebbe dovuto essere discusso. Bisognava prendere la decisione di ricompattare la città evitando che si allargasse a dismisura. Questa scelta non fu fatta.
Dopo i terremoti del Centro Italia, si è parlato di un modello L’Aquila, veloce, efficace ed efficiente, e di un modello Amatrice, lento, inefficiente e confusionario. Secondo lei si può fare un paragone?
Secondo me non sono casi confrontabili. Ad Amatrice non si è scelto nessun modello, c’è stata solo un’irresponsabile inerzia. L’impressione che si ha è che si voglia evitare l’enorme dispendio di risorse che c’è stato all’Aquila. Recentemente ho letto che la spesa per la ricostruzione dell’Aquila sarà, alla fine, di 25 miliardi. 25 miliardi di euro sono 50 mila miliardi di vecchie lire, ossia quanto costò la ricostruzione dell’Irpinia, che però riguardò milioni di abitanti e comprese la ricostruzione di buona parte della città di Napoli, di quasi tutta la regione Basilicata, di metà della provincia di Salerno e di quasi tutta la provincia di Avellino. Ho l’impressione che stia passando un’interpretazione tutto sommato benevola della ricostruzione dell’Aquila senza che siano minimamente sfiorati questi nodi: lo sparpagliamento, l’ingovernabilità, il costo eccessivo che renderà ingestibili i servizi e che genererà un debito enorme che graverà sulle generazioni future. Di tutto ciò non si parla, sono sbalordito.