Sabato, 06 Aprile 2013 13:12

"Se quattro anni vi sembran pochi". Intervista a Vezio De Lucia

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«La ricostruzione dell'Aquila è stata ridotta solo a una questione edilizia ma è stata tralasciata la dimensione urbanistica e territoriale. L'errore più grave fu quello commesso pochi giorni, anzi, si potrebbe dire poche ore dopo il terremoto, quando venne presa la decisione di passare direttamente dalle tende alle case».

Secondo Vezio De Lucia, una delle figure di spicco dell'urbanistica italiana (è stato membro del Consiglio superiore dei Lavori pubblici e, per lungo tempo, funzionario dell'omonimo ministero, presso il quale ha ricoperto anche il ruolo di direttore generale del settore Urbanistica), è questo il vizio d'origine, il peccato primigenio del modello impresso alla ricostruzione dell'Aquila: l'aver scelto, a poca distanza dalla scossa distruttiva e dunque prima ancora di avere una chiara cognizione dell'entità del danno, di costruire insediamenti permanenti («poi impropriamente ribattezzati new town») bypassando completamente la fase degli alloggi provvisori, come invece era stato fatto per i terremoto del Friuli e dell'Umbria.

De Lucia è stato uno dei relatori del convegno-dibattito L'Aquila 2013. Se quattro anni vi sembran pochi, svoltosi ieri pomeriggio a palazzo Silone su iniziativa di un gruppo di comitati cittadini, tra cui Comitatus Aquilanus, Assemblea cittadina e Appello per L'Aquila.

«Quella decisione» spiega De Lucia «fu un errore perché al di là dei costi elevati e degli altri aspetti strettamente economici ad essa legati, impresse immediatamente un diverso disegno alla città dell'Aquila. Questa è una città caratterizzata storicamente da una grande dispersione, una città che già prima del terremoto aveva una sessantina di frazioni, alle quali, dopo il 6 aprile, ne sono state aggiunte altre con la costruzione dei nuovi quartieri. Prima del terremoto il tutto era equilibrato dalla presenza di un fortissimo centro storico, che era come un magnete intorno al quale ruotava il tutto. Per quanto disperso, era un sistema che funzionava bene perché, quasi quotidianamente, ogni aquilano era costretto ad andare in centro perché era lì che erano concentrate le attività commerciali e direzionali più importanti. Adesso invece il centro storico è distrutto e svuotato, la ricostruzione stenta – e questo verbo è un eufemismo - a partire, ma la dispersione continua sempre di più. C'è il rischio, gravissimo, che L'Aquila finisca col non essere più una città ma solo una sterminata periferia».

Lei non molto tempo fa scrisse: “E' durata 30 anni la guerra contro l'urbanistica e mi pare che gli assaltatori l'abbiano vinta”. Si può dire che l'impostazione data alla ricostruzione aquilana sia stato il certificato di morte definitivo dell'urbanistica intesa come metodo di programmazione degli assetti generali di un territorio?

«Sicuramente è stato un bel colpo di grazia. All'Aquila ha preso corpo uno dei difetti fondamentali dell'andazzo assunto dall'urbanistica italiana, quello cioè di cancellare l'urbanistica in quanto tale, nella sua accezione di sistema sociale compiuto, e di mettere al centro degli interessi, e quindi al centro degli interventi, delle leggi e dei provvedimenti, la casa, facendo di quest'ultima - un valore individuale che naturalmente nessuno intende contestare - il valore assoluto, primario, unico. Non è un caso – e mi scuso per il gioco di parole - che il piano Case si chiami così. La logica che lo sottende è: “Ti diamo una casa e tutto è risolto”. Non è così. Se do la casa in un posto sbagliato e in condizioni sbagliate, senza servizi, senza connessioni, io non vado incontro alle esigenze di una collettività, soddisfo solo un bisogno primario. Ma la vita non è fatta solo di questo».

E' troppo tardi per invertire la rotta? D'altro canto ora queste case esistono e bisogna trovare un modo per gestirle e valorizzarle.

«Noi, come Comitatus Aquilanus, dicemmo subito, già all'indomani del terremoto, che fra le cose primarie c'era da rimettere mano al piano regolatore, perché è in quella sede che va trovato il rapporto giusto fra le varie necessità. E' solo nel piano regolatore che io posso stabilire, ad esempio, quali e quante delle cosiddette e famigerate new town posso diventare insediamenti residenziali, quante posso essere trasformate in case per gli studenti o in alloggi provvisori destinati ad altre funzioni. Non credo che a queste domande si possa rispondere estemporaneamente o, come si dice nella mia città, Napoli, per “pensate”. Bisogna comporre la varie idee in un quadro complessivo, un disegno della città che si chiama piano regolatore. Piaccia o non piaccia, si deve ripartire da lì».

Ultima modifica il Sabato, 06 Aprile 2013 13:23

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